Spazio & Fisica

Pericolose sostanze radioattive fuoriescono dai ghiacciai delle Alpi: colpa anche del cambiamento climatico

Il ghiacciaio del Morteratsch e i torrenti che trasportano l’acqua di fusione durante i mesi estivi

Metalli pesanti ed elementi radioattivi scoperte i ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca in collaborazione con Università di Genova, INFN e LENA dell’Università di Pavia attraverso l’analisi di particolari sedimenti chiamati crioconiti. Lo studio è stato pubblicato su Scientific Reports. (nella foto di copertina:  Il ghiacciaio del Morteratsch e i torrenti che trasportano l’acqua di fusione durante i mesi estivi)

Milano, 30 agosto 2017 – Nei ghiacciai alpini ci sono sostanze radioattive prodotte da test e incidenti nucleari come cesio-137, americio-241 e bismuto-207: dopo essere stati deposti al suolo insieme alla neve possono essere conservati per decenni nei ghiacciai che fondono e si ritirano ogni anno di più. Lo dimostrano le recenti misure effettuate sul ghiacciaio del Morteratsch, nelle Alpi svizzere, da un gruppo di ricercatori italiani che ha utilizzato sedimenti chiamati crioconiti come rivelatori o “cartine tornasole” per l’analisi del ghiaccio. Le coppette crioconitiche – piccoli depositi di sedimenti scuri che si trovano sui ghiacci di tutto il mondo – oltre alle sostanze radioattive assorbono e concentrano anche metalli pesanti e metalloidi come zinco, arsenico e mercurio. Fortunatamente, però, non è stato rilevato alcun rischio immediato per la salute.

La ricerca è stata condotta da un gruppo di studiosi dei Dipartimenti di Scienze dell’Ambiente e della Terra e di Fisica dell’Università di Milano-Bicocca, dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), dell’Università di Genova e del Laboratorio per l’Energia Nucleare Applicata (LENA) dell’Università di Pavia. La collaborazione fra i ricercatori ha portato alla pubblicazione dello studio sulla rivista Scientific Reports del gruppo Nature (G. Baccolo, B. Di Mauro, D. Massabò, M. Clemenza, M. Nastasi, B. Delmonte, M. Prata, P. Prati, E. Previtali e V. Maggi, Cryoconite as a temporary sink for anthropogenic species stored in glaciers).

Le crioconiti sono tipici sedimenti di colore scuro che si formano nelle regioni dei ghiacciai soggette alla fusione e la loro formazione è dovuta all’interazione fra materiale di origine minerale e sostanza organica. Il loro nome viene dalle parole greche κρύον (freddo-ghiaccio) e κόνις (polvere), ed è noto che a causa del loro colore scuro le crioconiti sono in grado di accelerare i processi di fusione del ghiaccio. La ricerca mostra la loro capacità di assorbire varie sostanze e impurità come se fossero delle vere e proprie spugne. Fortunatamente, le sostanze potenzialmente nocive raggiungono concentrazioni significative solo all’interno delle singole coppette crioconitiche: quando il ghiaccio fonde e la crioconite viene rilasciata nell’ambiente insieme all’acqua di fusione, queste sostanze sono diluite enormemente, evitando quindi qualsiasi rischio concreto e immediato per la salute.

Con la progressiva fusione dei ghiacciai, le sostanze immobilizzate da anni o addirittura decenni vengono rilasciate nell’ambiente circostante attraverso l’acqua di fusione. Ciò che la ricerca evidenzia è che le concentrazioni rilevate nelle crioconiti sono nettamente superiori rispetto a quelle tipicamente osservate nel ghiaccio e nell’acqua di fusione pura. La regione alpina si conferma un’area critica e fragile dal punto di vista ambientale, essendo circondata da alcuni tra i distretti più densamente popolati e industrializzati del pianeta, e rappresenta un banco di prova ideale per studiare l’impatto delle attività umane sui ghiacciai e sugli ambienti d’alta quota in generale.

Per quanto riguarda l’eccesso di metalli pesanti, secondo i ricercatori le concentrazioni fanno pensare a un contributo umano derivante da industrie e trasporti, accumulatosi sui ghiacciai nel corso degli ultimi decenni. Fra le sostanze radioattive trovate alcune sono di origine naturale – come nel caso di torio, uranio e potassio – altre di origine antropica. La presenza di queste ultime è legata esclusivamente ad attività umane, ovvero i test e gli incidenti nucleari avvenuti negli anni passati.

Certe sostanze radioattive possono viaggiare insieme alle correnti atmosferiche e sono in grado di percorrere migliaia di chilometri. Gli effetti dell’incidente di Fukushima del 2011, avvenuto in Giappone, sono stati rilevati anche in Italia da alcuni degli autori di questo studio, seppure con concentrazioni bassissime: ecco come si spiega la presenza di sostanze radioattive sui ghiacciai alpini. Il cesio-137 è fra i nuclidi artificiali più noti, nonché il più abbondante fra quelli trovati nelle crioconiti, è associato a incidenti come quelli di Chernobyl e Fukushima, ma anche ai test nucleari degli anni Cinquanta e Sessanta, e la sua diffusione è notevole.

Lo stesso non si può dire per il bismuto-207: questa è infatti soltanto la seconda volta che viene rilevato nei ghiacciai. La sua origine rimane “misteriosa”, dal momento che non è ancora del tutto noto il processo antropico che lo ha prodotto. Si ipotizza che un ruolo importante possa essere rivestito da una particolare esplosione nucleare nella Novaja Zemlja, allora parte dell’Unione Sovietica: nel 1961 vi esplose infatti la “Bomba Zar”, la più potente bomba all’idrogeno mai sperimentata e principale indiziata per la presenza di bismuto-207 nella regione artica ed europea.

«Questo lavoro dimostra la capacità della crioconite di trattenere inquinanti di origine atmosferica con estrema efficienza – spiega Giovanni Baccolo, dottore di ricerca che collabora con i gruppi di Glaciologia e Radioattività dell’Università di Milano-Bicocca – incluse sostanze molto rare come i nuclidi radioattivi prodotti durante i test nucleari degli anni Sessanta. Considerando il perenne stato di ritiro dei ghiacciai alpini, questa ricerca è di grande interesse perché tutto ciò che è rimasto “intrappolato” nei ghiacciai negli ultimi decenni sarà presto rilasciato nell’ambiente»

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