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Come mai non riusciamo a preoccuparci (abbastanza) della privacy online, così da agire?

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Sembra un argomento riservato agli esperti informatici, ma credo che la questione riguardi tutti noi giacché la nostra quotidianità è permeata dalla presenza in rete (anche per il solo fatto di possedere uno smartphone o un account Facebook; se ve lo siete persi, ecco 98 cose che Facebook sa di noi, comprese informazioni apparentemente inutili come la metratura della casa); le diramazioni inoltre possono essere molteplici, coinvolgendo sfere differenti e importanti (come il cercare lavoro). Provo a fare qualche piccola considerazione.

Sono passati poco più di tre anni dalle rivelazioni di Snowden ma ancora (sembra) che non siano in molti ad aver preso una reale coscienza della tematica e delle implicazioni; pur informandomi, e preoccupandomi, io stesso non ho seguito tutti i consigli per tutelare la privacy. Cosa ci impedisce di agire? Onestamente mal sopporto chi tratta la privacy con sufficienza sostenendo il motto del “tanto non ho niente da nascondere”. La trovo, come argomentazione, superficiale e sostanzialmente errata; inoltre sembra dare alla questione un’accezione (moralmente) negativa, come se il sostenere il diritto alla privacy fosse sintomatico del fatto che sotto sotto qualcosa di sbagliato, e perciò da nascondere, ce l’hai altrimenti non ti starebbe a cuore. Per spiegarne il motivo agli amici finivo però per incartarmi in discorsi sui principi, su situazioni ipotetiche o notizie di casi estremi, finendo per far sembrare l’argomentazione macchinosa e astratta, come riguardasse solo i dissidenti. Finché non mi è venuta in aiuto la frase:

Affermare che non si è interessati al diritto alla privacy perché non si ha nulla da nascondere è come dire che non si è interessati alla libertà di parola perché non si ha nulla da dire.

– Edaward Snowden-

Semplice, diretto e penetrante. Eppure, nonostante tutte le cose di cui siamo divenuti consapevoli nel dopo Snowden, ancora la questione non ha preso il giusto spazio, rimanendo per lo più confinata tra pochi; oppure restando a livello di aforisma, a partire dallo sconsolato commento a certe notizie “eh..non c’è più privacy”, fino al complottismo del “siamo tutti controllati”. Mi pare che la noncuranza, o superficialità, con cui si affronta tale problema sia attribuibile a molteplici fattori, tra cui il considerarla un’esagerazione e perciò minimizzarla, la disinformazione, così come non voler rinunciare a certe comodità in nome di un diritto, quello alla privacy, la cui definizione sembra intangibile e di scarso valore. Eppure, soprattutto per noi giovani, dovrebbe essere un tema centrale considerando il ruolo imprescindibile che internet riveste nella quotidianità. Riguardo al considerare il venir tracciati online fantascienza, dovremmo abbandonare tale sicurezza e cominciare a preoccuparci: pensiamo al solo fatto che per esempio Zuckerberg (il fondatore di Facebook) , così come il direttore del FBI Comey, coprano webcam e microfono del loro notebook.

Il CEO di Facebook in una immagine in cui si vede il portatile con la webcam e microfono coperti.

Take the FBI’s director, James Comey: “I put a piece of tape over the camera because I saw somebody smarter than I am had a piece of tape over their camera.”

Paranoia? Forse sì, o forse sono consapevoli del funzionamento dei dispositivi. Uno potrebbe domandarsi ‘Si va bene ma se non sono un personaggio famoso perché dovrei curarmene? ‘. A tale quesito mi affiorano alla mente, per citarne due tra tanti, il caso del sito di incontri hackerato Ashley Madison e la vicenda di Tiziana Cantone. 

 Il fatto è che ci sono più aspetti collegati, non riguarda solo (si fa per dire) l’acquisizione di immagini da webcam o il salvataggio dei metadati; il problema è anche il venir influenzati, nel comportamento online, a livello inconscio e subdolo. Non credo occorra un grande balzo di immaginazione per pensare che se osservati, o consci che le nostre ricerche /chat/ video saranno archiviate, tendiamo a comportarci diversamente. Le insidie per carpire le informazioni su di noi sono tante e insidiose: dal semplice fatto che per interfacciarci alla rete usiamo (prevalentemente) un motore di ricerca (come Google) che neutrale non è, anzi, fino al giochino sul telefono che per funzionare (ri)chiede l’autorizzazione ad accedere ai dati del tuo account Google (comprese email, foto ecc ).Queste informazioni sono uno strumento potentissimo nelle mani, non sbagliate, ma altrui; fa in modo tale da porci in un piano differente e, anche se il 99% di noi non diverrà mai presidente o vip temendo ricatti e/o imbarazzi, rimane pur sempre un mezzo repressivo e ingiusto. I diritti, specialmente quelli fondamentali, vanno difesi anche quando non si è direttamente coinvolti; significa far parte di una società.

By Khalidalbaih Albaih

Internet è quindi cambiato, non è certo una novità, e lo si sente dire da un po’ ormai (si pensi alle discussioni in merito riguardanti le fake-news, la neutralità ecc…). Così come è cambiato rapidamente il modo di approcciarsi a questa tematica; sto pensando, per esempio, a come ne parlava Franzen in un saggio all’interno di Come stare soli: Lo scrittore, il lettore e la cultura di massa che, scritto prima dell’avvento di smartphone e social network, offre un bello spunto di riflessione. 

Eppure fare qualcosa e non arrendersi alla comodità del “eh non esiste più la privacy” è possibile, anche senza essere un geek; si tratta di piccoli passi contro la pigrizia mentale di default che sorge quando ci si approccia alla questione. Io per primo, conscio e preoccupato del problema, ancora uso Whatsapp anziché Signal; questo perché non riuscirei a convincere tutti i miei contatti su Whatsapp a migrare su un servizio equivalente, di cui molti non sentono bisogno. Sono propenso perciò a credere che l’ostacolo sia prendere una maggiore coscienza del problema; solo così si è spinti, se contrari, ad agire, soprattutto quando gli accorgimenti da prendere sono spesso semplici (come installare un app in luogo di un’altra).

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