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Colesterolo e rischio cardiovascolare: il ruolo “discusso” dei nutraceutici 

cuore

C’è bisogno di molta informazione: molto spesso la nutraceutica costituisce quasi un ostacolo all’implementazione di terapie ipocolesterolemizzanti adeguate

In Italia, ogni anno, muoiono più 224mila persone per malattie cardiovascolari: circa 47mila sono imputabili al mancato controllo del colesterolo. Proprio così: il colesterolo rappresenta uno tra i più importanti fattori di rischio cardiovascolare, causando per il Servizio Sanitario Nazionale un impatto clinico, organizzativo ed economico enorme, quantificabile in circa 16 miliardi di euro l’anno.

Partendo da questi dati, Motore Sanità ha promosso il webinar “FOCUS LIGURIA/PIEMONTE. IPERCOLESTEROLEMIA E RISCHIO CARDIOVASCOLARE: TRA BISOGNI IRRISOLTI E NUOVE PROSPETTIVE DI CURA”, coinvolgendo un parterre di relatori scientifici di altissimo livello, al fine di sollecitare risposte e soluzioni.

“Solitamente associamo il colesterolo all’obesità. La percezione generale, per tanto, è che la cattiva alimentazione sia il fattore principale responsabile del colesterolo, ma non è così, ha osservato Federico Nardi, Direttore S.C. Cardiologia Ospedale Santo Spirito Casale Monferrato, Presidente Regionale ANMCO Piemonte, Valle d’Aosta. “In realtà entrano in campo anche l’attività fisica, lo stile di vita, il fumo di sigaretta. Mi permetto anche di sottolineare questo: è un fattore di rischio cardiovascolare il colesterolo? Se noi nella nostra pratica quotidiana diciamo ai nostri pazienti che il fumo fa male, sovente ci sentiamo rispondere: “Dottore, di qualcosa bisognerà pur morire”. Dobbiamo spiegare che non è un fattore di rischio come il fumo, ma un agente eziopatogenetico. In Italia spendiamo molte risorse economiche nel parlare della prevenzione secondaria, che è fondamentale. Ma quando parliamo di ospedale e di territorio, dobbiamo parlare sia di prevenzione primaria sia di prevenzione secondaria. Dobbiamo fare rete, è importante la collaborazione con i medici di medicina generale. Sì poi all’informatizzazione e sì alla telemedicina, con la quale possiamo ridurre le congestioni all’interno dei nostri ospedali e collaborare di più con il territorio.

Sulla necessità di una maggiore informatizzazione ha parlato anche Roberto Pontremoli, Professore Ordinario Dipartimento Medicina Interna e Specialità Mediche Università di Genova, Direttore Clinica Medicina Interna 2 IRCCS Ospedale Policlinico San Martino, Genova.

“Vedo ancora tanta inerzia terapeutica, sia nelle figure professionali, anche degli specialisti – per motivi vari – sia della medicina generale”, ha sottolineato Pontremoli. “Che cosa può vincere allora questa inerzia terapeutica? La divulgazione e gli aspetti educazionale di cui, secondo me, c’è ancora bisogno a tutti i livelli. È necessaria anche una maggiore informatizzazione che può portare a una semplificazione. I farmaci ci sono e sempre più li utilizziamo, però a mio avviso c’è anche bisogno di molta informazione. Il caso dei nutraceutici è esemplificativo: molto spesso la nutraceutica costituisce quasi un ostacolo all’implementazione di terapie ipocolesterolemizzanti adeguate. Senza negare che a ognuno va dato il proprio spazio, quando la prevenzione cardiovascolare si sposta in contesti più avanzati è quasi ridicolo che il paziente voglia un farmaco a pagamento e non assuma una terapia di approvata efficacia che è rimborsata.

C’è poi un altro aspetto, sottolineato dal dottor Gaetano De Ferrari, Direttore SC di Cardiologia – AOU Città della Salute e della Scienza, Presidio Molinette: “Credo in una catena di figure professionali che siano tutte concordi. L’educazione, anche quella del paziente, è essenziale. Sia i medici di base sia gli specialisti devono concorrere per la stessa indicazione. Per quanto riguarda la medicina di base, credo sia interessante il paragone fra l’Italia e l’Inghilterra. 15 anni fa circa, i medici di base in Italia venivano multati se usavano una statina ad alta intensità – fuori budget – e questa faceva bene al paziente.  Contestualmente i medici di base in Inghilterra venivano premiati se raggiungevano il target terapeutico, quindi esattamente l’approccio opposto. Sarebbe bello se si pensasse di iniziare a gratificare sulla base del raggiungimento degli obiettivi, non sul mero risparmio economico. Credo che i tempi siano maturi per cambiare un po’ la filosofia: pay for results.

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