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Trump e l’Europa smarrita tra identità, sicurezza e paura del declino

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La nuova dottrina strategica americana non è soltanto un documento di politica internazionale: è un messaggio politico diretto, quasi frontale, all’Europa. Donald Trump rimette al centro un’idea semplice e brutale: gli Stati Uniti non sono più disposti a farsi carico delle insicurezze e delle esitazioni di un continente che, a suo giudizio, ha smarrito direzione, volontà e identità.

Il linguaggio è duro, persino provocatorio, ma rivela una verità che l’Europa preferisce spesso eludere. È una questione che ricorda, per certi versi, le parole pronunciate da Henry Kissinger quando si chiedeva: «Chi devo chiamare quando voglio parlare con l’Europa?» Una battuta amara che riassume la tradizionale incapacità europea di parlare con una sola voce. Da anni il Vecchio Continente vive in uno spazio ambiguo: pretende autonomia, ma non investe nella difesa; invoca stabilità, ma evita di affrontare i propri nodi politici; condanna l’aggressività russa, ma resta diviso su ogni scelta strategica.

A questa fragilità si somma una trasformazione storica profonda. L’Europa fatica a interpretare il mondo multipolare che sta emergendo. Cina e India – come altre potenze emergenti – non accettano più di essere comparse nella storia scritta da altri. Rivendicano un ruolo da protagonisti, costruiscono alleanze flessibili, moltiplicano gli scambi commerciali e perseguono senza esitazione i propri interessi nazionali. È un fenomeno che ricorda, per certi aspetti, la fine dell’eurocentrismo iniziata dopo la Seconda guerra mondiale e accelerata con la decolonizzazione: un processo che oggi vive una nuova stagione, in forme ben più assertive.

In questo quadro, quasi certamente gioca un ruolo fondamentale anche il peso crescente del debito pubblico degli Stati Uniti, oggi uno dei principali fattori di vulnerabilità economica di Washington. Una parte consistente di tale debito è detenuta da attori stranieri, e la Cina figura tra i maggiori creditori mondiali. Questo squilibrio finanziario non è un dettaglio tecnico, ma un elemento che condiziona gli equilibri globali: gli Stati Uniti, pur restando la prima potenza mondiale, sanno di dover convivere con un vincolo strutturale che restringe i margini di manovra della loro politica internazionale.

Proprio per questo Trump insiste nel “bacchettare” l’Europa: non è solo una critica geopolitica, ma un messaggio legato al nuovo ordine economico globale. In un momento in cui Washington deve fronteggiare un indebitamento colossale, una Cina più assertiva e un mondo multipolare in rapido movimento, gli Stati Uniti non vogliono più sostenere da soli il costo della sicurezza di un continente che appare esitante e spesso autoreferenziale. L’Europa, agli occhi di Trump, non è più un alleato da proteggere, ma un partner che deve assumersi il proprio peso strategico.

Il rischio evocato da Trump – la “cancellazione della civiltà europea” – è certamente una forzatura retorica, ma dietro l’enfasi si intravede un timore reale: la progressiva irrilevanza strategica dell’Europa in un mondo in cui il baricentro del potere si sposta verso Est e verso Sud. Zbigniew Brzezinski lo aveva anticipato quando avvertiva che «le potenze che dominano l’Eurasia finiscono per influenzare il mondo intero»; un monito che risuona oggi con inquietante attualità.

Trump sfrutta questa fragilità per rilanciare un’America che non vuole più essere il garante automatico della sicurezza occidentale. Ma la risposta europea non può limitarsi al risentimento verso Washington. La vera domanda è: siamo pronti a vivere in un sistema globale in cui gli Stati Uniti non rappresentano più la nostra assicurazione sulla vita politica e militare? E siamo in grado di dialogare con potenze che non condividono i nostri modelli, ma sono ormai decisive negli equilibri mondiali?

Se l’Europa vuole evitare di essere un semplice spettatore, deve riappropriarsi della propria capacità strategica. Significa difesa comune, unità decisionale, visione industriale e una nuova consapevolezza del proprio ruolo storico. Significa, soprattutto, riconoscere che il mondo non attende più l’Europa per decidere il proprio destino. Trump parla al suo elettorato, ma senza volerlo parla anche a noi. Ci ricorda, nel modo brutale che gli è consueto, che il tempo dell’illusione è finito.

L’Europa deve scegliere se essere protagonista o semplice terreno di contesa tra potenze. La posta in gioco non è solo geopolitica: è culturale. È la nostra idea stessa di Europa.

 

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