I veri alleati dei complottisti: quando la cattiva divulgazione fa del male alla scienza
Nel vasto e talvolta inquietante panorama del complottismo contemporaneo, uno dei temi più duraturi e discussi è senza dubbio quello dello sbarco sulla Luna del 1969. Nonostante le prove scientifiche, tecniche e storiche schiaccianti (avete letto il nostro articolo sulle dirette Apollo?), c’è ancora chi crede fermamente che tutto sia stato una messa in scena orchestrata dalla NASA. Ma se è facile puntare il dito contro i soliti noti: i video su YouTube con titoli urlati, le pagine social antiscientifiche o i forum oscuri del web, c’è un fenomeno ben più grave e insidioso che alimenta questa sfiducia nella scienza: la cattiva divulgazione scientifica.
Quando i professori cadono nella trappola dell’arroganza
Sorprende, ma non troppo, che tra i peggiori “foraggiatori” delle teorie del complotto ci siano proprio accademici, professori universitari e improvvisati divulgatori che, con atteggiamenti supponenti o aggressivi, finiscono per fare il gioco di coloro che vorrebbero combattere. È capitato anche a me, autore di articoli come questo pubblicato sul blog di Gravità Zero del 2010, di ricevere insulti da parte di un docente universitario, sicuramente competente nella sua materia ma evidentemente inadatto a fare buona divulgazione, per aver semplicemente spiegato — con chiarezza e senza arroganza — in che modo possiamo ancora oggi verificare che gli astronauti siano effettivamente atterrati sulla Luna. La cosa grave è che queste persone fanno del male all’informazione e dovrebbero dedicarsi a quello che sanno fare meglio: ricerca e (forse) insegnamento.
L’articolo in questione illustrava, tra le altre cose, l’esistenza di specchi retroriflettenti lasciati sulla superficie lunare dalle missioni Apollo e come questi vengano tuttora utilizzati per misurare con precisione la distanza tra la Terra e la Luna grazie a raggi laser. Un dato scientifico indiscutibile, che però, nel tentativo di essere comunicato in modo accessibile, ha scatenato la reazione di chi — pur vantando titoli accademici — considera la divulgazione semplice una forma di banalizzazione, se non addirittura un’eresia.
Il cortocircuito della comunicazione scientifica
Questo è il paradosso: più si tenta di rendere la scienza accessibile, più alcuni “puri” della cultura scientifica si sentono in dovere di difendere l’altare della complessità, aggredendo chi “osa” parlare ai non addetti ai lavori. E così facendo, si offre munizioni preziose ai complottisti, che interpretano questi atteggiamenti elitari come conferma che “la scienza ha qualcosa da nascondere”.
Quando un professore insulta un divulgatore per aver scritto un articolo chiaro e comprensibile, rafforza esattamente il frame retorico del complotto: quello secondo cui ci sarebbe una “casta” che si arroga il diritto di stabilire ciò che è vero e ciò che non lo è, impedendo il dibattito, denigrando le domande legittime e trattando il pubblico con condiscendenza.
Divulgazione non è semplificazione banale
Fare buona divulgazione non significa abbassare il livello, ma tradurre contenuti complessi in linguaggio accessibile, conservandone il rigore. Ed è proprio questo tipo di comunicazione che può contrastare l’ignoranza e il sospetto da cui si nutre il complottismo. Ma per farlo servono non solo competenze scientifiche, bensì anche umiltà, empatia e capacità pedagogica. Doti che, purtroppo, non sempre accompagnano i titoli accademici.
Chi ha paura di spiegare chiaramente, o chi rifiuta il confronto perché crede che il sapere debba rimanere inaccessibile, non fa altro che creare distanze, riempiendo il vuoto con diffidenza. E nel vuoto della fiducia, le teorie del complotto prosperano.
Il caso dello specchio sulla Luna
L’esempio dello specchio retroriflettente lasciato dalla missione Apollo 11 è emblematico. Basta osservare che l’esperimento viene condotto tuttora da diversi osservatori astronomici, anche non americani (inclusi laboratori francesi e italiani), per confutare ogni ipotesi di finzione cinematografica. Se si trattasse davvero di un inganno, sarebbe stato impossibile mantenere la coerenza di un simile meccanismo per più di 50 anni, coinvolgendo centinaia di scienziati e tecnici di tutto il mondo, in contesti geopolitici e scientifici diversi.
Ma anziché valorizzare questi elementi come opportunità educative, troppi accademici preferiscono trattare chi pone domande come un ignorante da zittire, non come un cittadino curioso da coinvolgere. Ed è proprio qui che la cattiva divulgazione diventa il miglior alleato del complottismo.
Una responsabilità collettiva
Se vogliamo davvero arginare la diffusione delle teorie complottiste — dallo sbarco sulla Luna alla Terra piatta, dai vaccini al cambiamento climatico — dobbiamo rivedere il modo in cui comunichiamo la scienza. Serve una divulgazione aperta, inclusiva e rispettosa. Serve la disponibilità a rispondere alle domande, anche a quelle che ci sembrano ingenue. Serve soprattutto la capacità di riconoscere che l’autorità non si impone con i titoli, ma si conquista con la chiarezza e l’onestà intellettuale.
Fino a quando ci saranno esperti che si comportano come sacerdoti di un sapere iniziatico, i complottisti potranno continuare a dire che “qualcosa non torna”. E, purtroppo, avranno gioco facile.
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