di Giovanni Firera
A seguito della lettura del recente libro scritto dallo storico Italiano Gianni Oliva, presentato a Torino lo scorso 29 ottobre del corrente anno, al Circolo dei Lettori, sono sorte spontanee alcune considerazioni o dubbi su alcuni aspetti storici del periodo e più precisamente sulle leggi speciali fatte attuare da Giuseppe Pica, deputato abruzzese, che ritenne opportuno far approvare dal Parlamento, per debellare quella piaga sociale che allora venne chiamata , “il banditismo dilagante” del Sud Italia.
Ci sono leggi che nascono in nome dell’ordine e finiscono per incrinare il concetto stesso di giustizia. Nel percorso della storia italiana, dalla Legge Pica del 1863 alle leggi razziali del 1938 fino alle più recenti normative antiterrorismo, si ripete un sillogismo antico: la paura del disordine, reale o costruita, genera l’eccezione giuridica; l’eccezione, una volta sancita, si trasforma in norma; e la norma, divenuta strumento di controllo, legittima l’abuso del potere.
La Legge Pica: il brigantaggio e la nascita dell’“eccezione di Stato”
Nel 1863 l’Italia era un Paese appena nato. La Legge Pica — così chiamata dal deputato abruzzese Giuseppe Pica — venne promulgata per combattere il brigantaggio che dilagava nel Mezzogiorno dopo l’unificazione. Dietro l’apparenza di un intervento militare e di pubblica sicurezza, si celava un provvedimento politico: isolare, punire e delegittimare ogni forma di resistenza meridionale, etichettata come “criminale” o “sovversiva”.
La legge sospendeva le garanzie costituzionali, autorizzava lo stato d’assedio e conferiva pieni poteri alle autorità militari. Bastava una denuncia o un sospetto per essere arrestati, deportati o fucilati. Il Mezzogiorno venne trattato come un corpo estraneo alla nuova Italia liberale: un laboratorio di repressione che anticipava i futuri regimi di eccezione. La logica era semplice e terribile: per difendere lo Stato, lo Stato poteva negare sé stesso.
Le leggi razziali del 1938: dalla paura sociale al nemico biologico
Settantacinque anni dopo, la stessa struttura sillogistica si ripresenta, ma muta di segno. Le leggi razziali fasciste non nascono da un disordine reale, bensì da un disegno ideologico: la costruzione del “nemico interno” come strumento di coesione politica e di conformismo nazionale. Gli ebrei italiani, cittadini integrati e patrioti, vengono improvvisamente privati dei diritti, espulsi dalle scuole, dagli uffici pubblici, dalle forze armate.
Il sillogismo si ripete: esiste un problema (l’identità nazionale “minacciata”), si invoca l’ordine (la purezza razziale), e si giustifica la sospensione del diritto (la discriminazione legale). La differenza rispetto alla Legge Pica è nel grado di astrazione: non più il brigante da neutralizzare, ma l’uomo da disumanizzare. Tuttavia, il principio resta identico: la paura, quando diventa norma, cancella la libertà e trasforma la legge in strumento di ingiustizia.
Le leggi antiterrorismo: il ritorno dell’eccezione nell’età globale
Nel XXI secolo, l’Italia e l’Europa tornano a invocare lo “stato d’eccezione” di fronte a una nuova minaccia: il terrorismo internazionale. Dalle leggi speciali degli anni di piombo fino ai recenti decreti antiterrorismo post-11 settembre, si è consolidata la convinzione che la sicurezza possa prevalere sulla libertà. Arresti preventivi, sorveglianza di massa, intercettazioni generalizzate, schedature etniche o religiose: tutto ciò che un tempo sarebbe apparso contrario al diritto oggi viene spesso accettato come necessario.
Eppure, l’analogia con le leggi precedenti è evidente. Cambia il contesto — il Sud “insorgente” dell’Ottocento, la comunità ebraica del Novecento, il migrante sospetto del nuovo millennio — ma il meccanismo resta lo stesso: individuare un nemico, creare una paura collettiva, sospendere il diritto per riaffermare l’autorità dello Stato.
Tavola comparativa descrittiva: la continuità dell’eccezione
– Motivazione ufficiale: la Legge Pica nasce per “ristabilire l’ordine pubblico”; le leggi razziali per “difendere la razza”; le leggi antiterrorismo per “garantire la sicurezza”. In tutti i casi, il linguaggio è giuridico, ma il fine è politico.
– Soggetto colpito: il contadino meridionale, l’ebreo, il migrante o il sospetto terrorista: categorie diverse, ma tutte isolate e rese invisibili.
– Strumenti giuridici: sospensione delle garanzie (1863), esclusione legale (1938), controllo tecnologico e detenzione preventiva (XXI secolo).
– Effetto sociale: costruzione del nemico interno e legittimazione dell’abuso di potere.
– Retorica dominante: “sicurezza”, “ordine”, “difesa della patria”. Parole che cambiano epoca ma non funzione: servono a giustificare l’ingiustificabile.
In ultimo, la lettura di tutto ciò potrebbe essere racchiuso in una conclusione che potrebbe enunciarsi ne “il paradosso della legge che tradisce se stessa”
Il filo rosso che lega la Legge Pica, le leggi razziali e le leggi antiterrorismo è il paradosso della democrazia: per proteggere sé stessa, essa si espone al rischio di negarsi. Quando il diritto diventa strumento di paura, la legge perde la sua funzione emancipatrice e si trasforma in codice di esclusione.
Nel 1863 si colpivano i briganti per salvare l’Italia; nel 1938 si perseguitavano gli ebrei per salvare la nazione; oggi si sorvegliano i cittadini per salvare la sicurezza. Cambiano le forme, non la logica. Ogni volta che la legge rinuncia alla sua universalità per servire un’emergenza, si ripete lo stesso sillogismo tragico: per difendere l’ordine, si semina l’ingiustizia.

 
	
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