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Perché i Presidenti di Regione vengono chiamati “governatori”? Un titolo giornalistico che racconta un Paese in trasformazione

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Domani e dopodomani, tre regioni importanti,  grandi, della nostra Nazione, andranno a votare per rinnovare il Consiglio regionale. Sempre più nei titoli giornalistici, erroneamente, i giornalisti sempre più frequentemente  chiamano gli aspiranti presidenti della regione “governatori”.  Nel linguaggio istituzionale italiano, il termine corretto e riconosciuto dalla Costituzione è chiaro: Presidente della Giunta regionale, oggi più comunemente sintetizzato in Presidente della Regione. Eppure, nel dibattito pubblico, nei talk-show, nei titoli dei quotidiani e perfino nei commenti politici, la parola che domina è un’altra: Governatore. Un termine che non ha fondamento giuridico, ma che si è imposto progressivamente, diventando parte dell’immaginario collettivo. Come è accaduto? E cosa racconta questo slittamento linguistico sulla politica italiana e sul ruolo crescente delle autonomie regionali?

Per comprendere l’origine del fenomeno occorre tornare agli anni Novanta, quando l’Italia attraversa una stagione di trasformazioni profonde: il crollo dei partiti tradizionali, l’avvento dell’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di Regione, la riforma del Titolo V della Costituzione, e un processo di progressiva valorizzazione dei territori. È proprio in questo clima che i media iniziano a usare sempre più spesso il termine governatore, mutuato dal lessico statunitense, per raccontare figure politiche percepite come più autonome, più forti e più riconoscibili rispetto al passato. Il presidente regionale smette di essere considerato un funzionario amministrativo e comincia a incarnare il volto politico di un territorio, con un consenso personale paragonabile a quello di un capo di governo in miniatura.

Questo cambio semantico anticipa e accompagna un mutamento reale: le Regioni iniziano a esercitare poteri più significativi, soprattutto in settori cruciali come la sanità, i trasporti, la pianificazione territoriale, la protezione civile. La pandemia da Covid-19, molti anni dopo, renderà ancora più evidente questa dinamica: le ordinanze regionali, le conferenze stampa serali, le decisioni sui lockdown locali mettono i Presidenti delle Regioni al centro dell’attenzione nazionale. I giornali, i telegiornali e le piattaforme digitali consolidano così un’abitudine già radicata: il Presidente di Regione è il governatore, colui che “governa” il territorio e prende decisioni che incidono direttamente sulla vita quotidiana dei cittadini.

Eppure, dietro questa rappresentazione giornalistica si nasconde un nodo importante: la Costituzione italiana non prevede alcun Governatore. L’articolo 121 definisce con precisione gli organi regionali, e nemmeno le Regioni a statuto speciale utilizzano questa denominazione nei propri ordinamenti. Il termine rimane una costruzione narrativa, non un riconoscimento istituzionale. E forse è proprio qui che si gioca la partita più interessante: il linguaggio dei media anticipa spesso trasformazioni che il diritto non ha ancora codificato. Usare la parola Governatore significa attribuire implicitamente un profilo di potere, una centralità politica, una capacità decisionale che supera la lettera della legge.

Non è un caso che il termine sia particolarmente diffuso nelle regioni più popolose, più economicamente rilevanti o più identitarie: Lombardia, Veneto, Lazio, Campania, Sicilia. Qui i Presidenti non rappresentano soltanto un’istituzione amministrativa, ma interpretano un ruolo quasi “patrimoniale”, diventando portavoce di istanze territoriali nei confronti del governo centrale. Il lessico giornalistico, in questo senso, funziona come un amplificatore: rafforza la percezione che esistano leadership regionali forti, dotate di un mandato diretto e di un potere quasi federale, anche se formalmente non è così.

C’è poi un altro elemento culturale: la fascinazione italiana per i modelli stranieri. Negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, il Governatore è un’istituzione reale, con poteri costituzionalmente riconosciuti. Adottare quella parola significa evocare un sistema diverso, più decentrato, più competitivo, più vicino alla logica dei territori-Stato. È come se l’Italia, pur rimanendo formalmente uno Stato regionale e non federale, mostrasse un desiderio latente di maggiore autonomia locale, un anelito di riconoscimento delle identità territoriali storiche, linguistiche, economiche e culturali. Non è un caso che proprio nei momenti di tensione politica — referendum sull’autonomia differenziata, discussioni sulla sanità regionale, confronti tra Nord e Sud — il termine governatore ricompaia con più insistenza.

Tuttavia, questa evoluzione comporta anche rischi. Sul piano comunicativo, l’uso improprio del termine può generare confusione istituzionale: i cittadini potrebbero credere che le Regioni abbiano poteri che non possiedono, alimentando aspettative o polemiche fuori fuoco. Dal punto di vista giuridico, il linguaggio può contribuire a erodere il senso della gerarchia delle fonti, suggerendo una realtà costituzionale diversa da quella esistente. E sul piano politico, l’enfasi mediatica sulle leadership regionali può accentuare dinamiche di personalizzazione, contrapponendo territori e alimentando narrazioni competitive.

Ciò nonostante, il termine continua a prosperare, perché risponde a una logica comunicativa semplice: personalizza il potere, lo rende riconoscibile, lo trasforma in storia. “Il Governatore del Veneto”, “il Governatore della Lombardia”, “il Governatore della Sicilia”: sono formule che creano identità e costruiscono immaginari. Il giornalismo, per sua natura, cerca parole che funzionino, che si imprimano nella memoria, che semplifichino la complessità. E Presidente della Giunta regionale non possiede la stessa efficacia narrativa: è tecnico, lungo, burocratico, poco evocativo. Governatore, al contrario, è diretto, sonoro, simbolico.

In definitiva, l’uso di questo termine racconta più del nostro modo di percepire le istituzioni che delle istituzioni stesse. Rivela un’Italia in equilibrio tra centralismo e autonomia, tra uniformità nazionale e identità territoriali, tra Costituzione formale e rappresentazione pubblica. Finché la struttura dello Stato rimarrà quella attuale, il Governatore continuerà a essere una figura linguistica e mediatica, non giuridica. Ma il fatto stesso che quella parola abbia attecchito, che sia diventata comune, che sia entrata nell’uso quotidiano, indica un fenomeno culturale destinato a durare: la politica regionale è ormai parte del racconto nazionale e ne interpreta una quota crescente. Il giornalismo non ha cambiato la Costituzione. Ma ha cambiato il modo in cui la percepiamo. E, spesso, questo è il primo passo di ogni trasformazione.

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