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Perché il caso Venezi alla Fenice è più ideologico che artistico

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Nei giorni successivi alla nomina di Beatrice Venezi come direttore musicale del Teatro La Fenice di Venezia, alcuni critici e giornali hanno ricostruito le modalità di selezione di una figura così importante all’interno di una fondazione lirica.

Secondo alcuni, pur avendo il sovrintendente ampi poteri di scelta, la “prassi consolidata” nei teatri italiani vorrebbe che si consultasse preventivamente l’orchestra per verificare la fiducia e l’affinità con i musicisti. La decisione di Nicola Colabianchi – che ha nominato Venezi senza consultazioni preventive – sarebbe dunque «anomale» e avrebbe “rotto una consuetudine fondamentale”.

Si aggiunge poi che le critiche alla nomina non derivano solo dalle simpatie politiche di Venezi – notoriamente vicina all’attuale governo di destra – ma anche dal suo curriculum, ritenuto da diversi addetti ai lavori insufficiente per un teatro di prestigio come La Fenice.

Infine, i commentatori respingono il paragone con Diego Matheuz, nominato direttore principale nel 2011 sempre a La Fenice a soli 27 anni, sostenendo che il suo ruolo fosse meno influente e la sua carriera internazionale più solida di quella attuale di Venezi.


Dove questi ragionamenti non convincono?

Molte delle precedenti ricostruzioni presentano semplificazioni e fallace argomentative.

In primo luogo, si suggerisce che la consultazione dell’orchestra sia una prassi generalizzata e imprescindibile, ma nella realtà del mondo sinfonico e lirico internazionale, la scelta del direttore musicale è quasi sempre una decisione del CdA o del sovrintendente, spesso in coordinamento con il Ministero o il consiglio artistico, non con gli orchestrali.

Basta guardare a esempi noti:

  • Alla Berliner Philharmoniker, uno dei pochi casi in cui l’orchestra vota il direttore, si tratta di un’eccezione storica e di una struttura cooperativa unica in Europa.

  • Alla New York Philharmonic, il direttore musicale è nominato dal Board of Directors su proposta dell’amministratore delegato e del comitato artistico. Gli orchestrali non hanno diritto di voto.

  • Alla Royal Opera House di Londra o alla Scala di Milano, le nomine dei direttori musicali sono effettuate dal Consiglio di Amministrazione e dal sovrintendente, con parere del Ministero, non dagli orchestrali.

  • Anche all’Opéra National de Paris, la scelta ricade sul sovrintendente e sul consiglio direttivo della Réunion des Théâtres Lyriques Nationaux.

Dunque, se Colabianchi non ha consultato preventivamente l’orchestra, non ha violato alcuna “regola” del settore, ma semplicemente non ha seguito una prassi informale che, peraltro, non è comune nelle istituzioni liriche di rango internazionale. Parlare di “anomalia”, come fanno i critici della Venezi, significa quindi interpretare una scelta gestionale come una deviazione politica, quando in realtà rientra pienamente nei poteri statutari del sovrintendente.


Il contesto storico della Fenice

Inoltre, si presenta La Fenice come un teatro con una tradizione consolidata di governance e continuità artistica. In realtà, la storia recente dell’istituzione è stata piuttosto irregolare.

Per oltre quindici anni, La Fenice ha operato senza un direttore musicale stabile, affidandosi a collaborazioni esterne e a direttori ospiti. L’ultimo direttore principale effettivo, Diego Matheuz, fu nominato nel 2011 a soli 27 anni, con un’esperienza limitata e in gran parte maturata all’interno del progetto venezuelano El Sistema.

Anche allora, secondo diversi articoli dell’epoca (tra cui La Repubblica, 2011), la sua nomina fu accolta con perplessità da parte di critici che la ritenevano prematura. Tuttavia, l’aspetto politico non ebbe un ruolo nel dibattito, mentre oggi l’appartenenza culturale di Venezi sembra aver pesato più del suo merito musicale.


Politica o estetica?

Le critiche di questi giorni, più che artistiche, sembrano quindi riflettere un pregiudizio politico e ideologico. Venezi è una figura pubblica che non ha mai nascosto la sua vicinanza al governo Meloni e le sue posizioni conservatrici, cosa che la rende bersaglio naturale di una parte del mondo culturale italiano, tradizionalmente più progressista.

Molte delle opinioni citate dai giornali  sembrano collocarsi su un piano estetico e personale, più che su una valutazione strutturale o comparativa delle competenze.

È indubbio che la carriera di Venezi non sia ancora paragonabile a quella di alcuni grandi direttori internazionali, ma la direzione artistica non si misura solo con la quantità di titoli in curriculum: anche Gustavo Dudamel, Riccardo Frizza o Antonio Pappano ebbero ruoli di grande responsabilità in età molto giovane.


Una nomina nel solco della norma

In definitiva, la nomina di Beatrice Venezi non rappresenta una rottura delle regole, ma semmai una scelta legittima e coerente con la struttura di governance delle fondazioni liriche italiane e internazionali, dove il potere decisionale risiede nel CdA e nel sovrintendente, non nell’orchestra.

Il caso Fenice sembra dunque meno una questione di merito artistico o di prassi violata, e più una polemica politica mascherata da dibattito culturale.

In copertina: Foto generata dalla AI

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