di Claudio Pasqua, direttore di Gravità Zero
Lo sciopero dei giornalisti proclamato oggi dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI) ha un carattere puramente simbolico: richiama l’attenzione sul contratto nazionale FNSI–FIEG, scaduto da anni, sul progressivo calo del potere d’acquisto e sulla crisi strutturale delle redazioni. Tuttavia, malgrado il valore politico dell’iniziativa, è evidente che l’impatto è limitato: non tutti i giornalisti italiani partecipano allo sciopero, e anzi una parte rilevante della categoria non si riconosce in questa mobilitazione. Per comprenderne i motivi, occorre guardare oltre la superficie e analizzare la struttura reale del giornalismo italiano, profondamente mutata negli ultimi vent’anni.
UGL che non ha aderito allo sciopero di oggi: dichiara “Ben venga un rinnovo contrattuale per i giornalisti, però pensiamo che, non ci sia solo una questione economica, il contratto deve ridisegnare una professione che è molto cambiata e per la quale la questione economica è strettamente correlata a un assetto superato. Nessuna posizione di retroguardia può portare a un rinnovo equo e giusto e al passo coi tempi”.
Il perimetro dello sciopero: chi è coinvolto e chi no
Lo sciopero indetto dalla FNSI riguarda i giornalisti dipendenti delle testate che applicano il contratto collettivo nazionale di lavoro firmato con la FIEG, l’associazione degli editori di giornali. Rientrano quindi quotidiani, periodici, agenzie di stampa, radio, televisioni e testate digitali strutturate. È un ambito importante, ma tutt’altro che esaustivo dell’intera categoria.
In Italia, infatti, esiste una marcata differenza tra giornalisti regolarmente assunti e tutto il resto del comparto: collaboratori, freelance, partite IVA, pubblicisti che svolgono attività giornalistica continuativa, professionisti autonomi iscritti all’Ordine ma privi di un contratto stabile. Molti di loro contribuiscono ogni giorno in modo sostanziale all’informazione nazionale, ma non sono coperti dal contratto FNSI–FIEG e dunque non possono essere formalmente coinvolti nello sciopero.
Il confine non è soltanto normativo: è anche socioeconomico. Il giornalismo italiano non è più un corpo omogeneo, ma un mosaico di professioni diverse, con tutele e condizioni radicalmente differenti.
I numeri che spiegano questa distanza
In Italia gli iscritti all’Ordine dei Giornalisti sono oltre centomila. Ma i giornalisti “attivi”, cioè coloro che svolgono realmente la professione in modo continuativo, sono poco più di un terzo. La fotografia più significativa, tuttavia, riguarda la natura del rapporto di lavoro.
Secondo dati sindacali e di categoria, solo circa il 19% dei giornalisti attivi ha un contratto di lavoro dipendente. Tutti gli altri — cioè la stragrande maggioranza — vivono di collaborazione, cottimo, prestazioni autonome, lavori saltuari, incarichi a tempo, partite IVA. Si tratta di quel vasto universo di giornalisti che popolano redazioni digitali, uffici stampa, piattaforme editoriali e progetti indipendenti, spesso senza garanzie e con compensi estremamente variabili.
È facile comprendere, quindi, come lo sciopero odierno — pur legittimo nelle sue finalità — non possa coinvolgere automaticamente questa maggioranza. La FNSI può proclamare un’astensione dal lavoro per chi ha un contratto; un freelance, invece, se “sciopera”, rischia semplicemente di non essere pagato, di perdere collaborazioni o di vedersi preferire altri colleghi in un mercato editoriale estremamente competitivo.
Perché freelance e liberi professionisti non si sentono rappresentati
Il primo motivo della mancata adesione non è ideologico, ma concreto: lo sciopero non riguarda il loro contratto, perché non ne hanno uno. La rivendicazione della FNSI punta al rinnovo del contratto collettivo FNSI–FIEG, uno strumento fondamentale per i dipendenti di redazione, ma irrilevante per chi lavora “a pezzo” o come libero professionista. È naturale quindi che molti collaboratori, pur condividendo le preoccupazioni sulla crisi della professione, percepiscano questa mobilitazione come distante.
Ma ci sono anche motivi più profondi.
1. Differenze economiche e di sicurezza del lavoro
Il divario retributivo tra un giornalista assunto e un freelance è enorme: il primo può guadagnare anche cinque volte in più del secondo, senza contare ferie, malattia, contributi, tutele. A ciò si aggiunge un mercato editoriale che spesso paga le collaborazioni pochi euro a pezzo, o con mesi di ritardo. Per molti autonomi, scioperare è un lusso che semplicemente non possono permettersi.
2. Rappresentanza percepita come squilibrata
Molti freelance ritengono che la FNSI e le strutture sindacali storiche rappresentino soprattutto i giornalisti di redazione, nonostante gli impegni e gli sforzi dichiarati. Questa percezione — alimentata da anni di scarsa tutela del lavoro autonomo — rende difficile sentirsi parte di iniziative come lo sciopero odierno.
3. Modelli professionali troppo diversi
Il giornalismo odierno non è più quello delle grandi redazioni del Novecento. Esistono giornalisti che si occupano di digitale, altri che producono contenuti multimediali, altri ancora che lavorano in progetti editoriali indipendenti o in startup dell’informazione. Per molti di loro, il contratto FNSI–FIEG non è più lo strumento di riferimento: semplicemente appartengono a un ecosistema diverso.
Una categoria divisa che riflette una crisi più profonda
Il fatto che buona parte dei giornalisti italiani non scioperi non significa disinteresse, bensì una frattura ormai cronica all’interno della professione. Lo sciopero della FNSI è un segnale importante, ma fotografa solo una parte del sistema dell’informazione.
La precarietà, la frammentazione contrattuale e la trasformazione del mercato editoriale hanno creato una categoria bifronte: da un lato chi ha un contratto stabile e può scioperare, dall’altro chi vive nell’incertezza ed è costretto a muoversi in un mercato fluido, senza la possibilità di aderire a forme di protesta tradizionali.
Il rischio, per la democrazia e per il pluralismo informativo, è evidente: un giornalismo debole, precario e non tutelato è un giornalismo meno libero e meno indipendente.
UGL che non ha aderito allo sciopero di oggi conferma che dovremo prima o poi confrontarci con la realtà della professione: un mondo in cui la maggior parte di chi produce informazione non ha un contratto, non ha tutele, non ha voce. E finché questa parte maggioritaria dei giornalisti non verrà pienamente riconosciuta e inclusa, ogni mobilitazione rischierà di parlare solo a una minoranza — lasciando fuori proprio coloro che più avrebbero bisogno di essere rappresentati.

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