L’idea di un’Europa debole non nasce da una sua intrinseca incapacità, ma dalle scelte – o dalle mancate scelte – dei suoi Stati membri. È questo il nodo che troppo spesso viene ignorato nel dibattito pubblico, mentre l’Unione europea diventa bersaglio di attacchi sempre più aggressivi: parassita, costruzione ostile agli Stati Uniti, addirittura un nuovo “Quarto Reich”, secondo le recenti e provocatorie definizioni circolate nel circuito trumpiano e rilanciate, con entusiasmo, anche da figure come Elon Musk. A queste voci si è prontamente accodato Vladimir Putin, trovando non pochi sostenitori anche in Italia, persino in aree vicine al governo.
Di fronte a questa offensiva verbale e politica, l’errore più grande sarebbe continuare a interpretare il mondo con categorie superate o reagire con un atteggiamento timido e difensivo. L’insulto sistematico all’Europa non è soltanto un tentativo di delegittimazione: è, paradossalmente, il riconoscimento implicito del peso del modello europeo. Se l’Unione fosse davvero irrilevante, non meriterebbe tanta attenzione né tanto livore. Come recita un vecchio detto, chi disprezza, spesso lo fa perché teme o desidera ciò che critica.

Il problema, allora, non è l’Europa in sé, ma il modo in cui gli Stati nazionali hanno scelto di costruirla e, soprattutto, di limitarla. L’Unione è stata concepita come un grande spazio economico, ma le è stato negato fino in fondo lo status di soggetto politico. Le politiche estere restano frammentate, la difesa comune incompiuta, le decisioni cruciali ostaggio di veti incrociati e calcoli elettorali interni. Così, mentre il mondo si riorganizza attorno a grandi potenze assertive, l’Europa appare esitante, più per mancanza di volontà che di mezzi.
Eppure, se gli Stati membri scegliessero davvero di agire insieme, la forza dell’Unione sarebbe evidente. Non solo sul piano economico – dove resta uno dei poli principali del pianeta – ma anche su quello culturale, sociale e democratico. Il modello europeo, fondato su diritti, welfare, pluralismo e cooperazione, rappresenta un’alternativa concreta sia al capitalismo senza regole sia all’autoritarismo muscolare. È proprio questa alternativa a risultare scomoda per chi punta su rapporti di forza brutali e su un mondo diviso in sfere d’influenza.
Invece di arretrare impaurita o limitarsi a proteste di rito, l’Europa dovrebbe prendere coscienza di sé. Ciò significa chiedere agli Stati membri un salto di qualità: meno sovranismi di comodo e più sovranità condivisa; meno ambiguità e più responsabilità comune. Solo così l’Unione potrà smettere di essere percepita come un gigante economico e un nano politico.
Alla fine, la vera domanda non è se l’Europa sia debole, ma se gli europei – e i loro governi – vogliano davvero che sia forte. Finché prevarrà la logica del “ciascuno per sé”, l’Unione resterà vulnerabile agli attacchi esterni. Ma se la scelta cambierà, anche la narrazione sull’Europa sarà costretta a cambiare con essa.
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