L’idea dell’euro come “ladro di ricchezza” è una narrazione facile da raccontare, ma non trova riscontro nella realtà. L’euro non ci ha “resi più poveri”. Ci ha piuttosto costretti a confrontarci con problemi strutturali che prima venivano nascosti tramite svalutazioni periodiche. E attribuire alla moneta unica la responsabilità di decenni di mancata crescita significa ignorare ciò che davvero deve essere affrontato: investimenti, competitività, produttività e riforme.
Da più di vent’anni, ogni volta che l’economia italiana rallenta, la colpa ricade spesso su un unico imputato: l’euro. Una narrazione che si è radicata nel dibattito pubblico e che viene riproposta ciclicamente da frange euroscettiche e sovraniste. Ma questa spiegazione “semplice” non regge quando si analizzano seriamente i dati economici.
La tesi del CEP: una lettura molto discutibile
Nel 2019 ha fatto molto discutere uno studio del Centre for European Policy (CEP) di Friburgo, secondo cui solo Germania e Paesi Bassi avrebbero beneficiato della moneta unica, mentre Italia e Francia sarebbero tra i Paesi più penalizzati: rispettivamente –4.325 miliardi e –3.591 miliardi dal 1999 al 2017.
Una conclusione pesante, rilanciata sui social come “la prova” che l’euro sarebbe stato un disastro.
Tuttavia, la metodologia adottata dal CEP è stata giudicata poco affidabile da numerosi economisti. Lo studio confronta un mondo reale con uno ipotetico (“controfattuale”), costruito su modelli che non spiegano davvero come sarebbero andate le cose se l’euro non fosse mai esistito.
In altre parole, il CEP ha provato a misurare quanto l’Italia “avrebbe guadagnato” mantenendo la lira — ma questo universo parallelo è frutto di assunzioni molto arbitrarie.
Non a caso, gli stessi autori hanno precisato che l’euro non può essere considerato l’unica causa delle difficoltà italiane. Anzi, hanno ricordato che:
“Nei decenni precedenti all’introduzione dell’euro l’Italia ha regolarmente svalutato la sua valuta. Dopo l’introduzione dell’euro questo non è stato più possibile. Mentre erano necessarie riforme strutturali che non sono state fatte”.
Il nodo, dunque, non è l’euro, ma il mancato adattamento dell’economia italiana al nuovo contesto internazionale.
L’Italia non cresceva nemmeno prima dell’euro
Un punto spesso ignorato dai critici è che la stagnazione italiana non inizia nel 2002. Già dagli anni ’90 la produttività italiana cresceva poco, gli investimenti arrancavano e il debito pubblico era molto elevato.
Diversi indicatori mostrano che:
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Il rallentamento della produttività italiana comincia nel 1995, sette anni prima dell’euro.
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La crescita del PIL pro capite era già inferiore rispetto a Francia, Germania e Spagna.
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L’Italia aveva tassi di interesse molto elevati a causa dell’alto debito: la lira veniva svalutata spesso per mantenere competitività.
L’euro ha semplicemente reso impossibile continuare con svalutazioni periodiche, una strategia che negli anni ’70 e ’80 aveva funzionato, ma che nel nuovo mondo globalizzato non era sostenibile.
Senza euro avremmo davvero potuto competere meglio?
Immaginare un “ritorno alla lira” come soluzione è una semplificazione.
Uno scenario realistico senza euro avrebbe probabilmente comportato:
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tassi di interesse più alti (perché il debito italiano sarebbe percepito come più rischioso)
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una valuta più debole, sì, ma anche inflazione più alta
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maggiore insicurezza per risparmi e investimenti
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difficoltà nei rapporti commerciali e finanziari con il resto d’Europa
La competitività italiana non è mancata per colpa della moneta, ma per la bassa produttività, l’inefficienza burocratica, l’insufficiente innovazione e il calo demografico.
Problemi che nessuna valuta, da sola, può risolvere.
Prezzi raddoppiati? Anche questa è una leggenda (con una piccola verità)
Un’altra accusa frequente è che “con l’euro i prezzi sono raddoppiati”.
L’Istat ha certificato che dal 2001 al 2002 l’aumento medio dei prezzi è stato del 33,5%, non del 100%.
Si tratta comunque di un aumento significativo, ma ben lontano dalla percezione comune.
Come spiegarla?
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Alcune categorie — bar, ristoranti, artigiani — arrotondarono all’insù i prezzi durante la conversione lira/euro, generando un effetto psicologico forte.
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Molti beni tecnologici e industriali, invece, si sono addirittura ridotti di prezzo negli anni successivi.
La sensazione del “prezzi raddoppiati” deriva più dalla distorsione su alcuni settori ad alta frequentazione (caffè, panino, parrucchiere) che da un reale impatto generale dell’euro.
Dunque: l’euro ci ha resi più poveri?
La risposta breve è no.
La risposta completa è che l’euro non era e non è un bancomat automatico per la crescita.
I Paesi che hanno fatto riforme, innovato e investito — come Germania e Paesi Bassi — sono cresciuti. Quelli che hanno rinviato le riforme, come l’Italia, hanno continuato a stagnare.
Dare la colpa all’euro è comodo, ma fuorviante:
il problema non è la moneta unica, ma il sistema produttivo e istituzionale italiano.
L’euro non ci ha “impoveriti”: ha semplicemente messo in luce debolezze strutturali che in passato venivano coperte ricorrendo alle continue svalutazioni della lira.
Incolpare la moneta unica per anni di crescita debole significa distogliere lo sguardo dalle vere priorità del Paese: investire, innovare, diventare più produttivi e portare avanti riforme profonde.
L’idea dell’euro come “ladro di ricchezza” è una narrazione facile da raccontare, ma non trova riscontro nella realtà.

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