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Le Bufale e FakeNews sul referendum dell’8 e 9 giugno

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Ecco come slogan virali, disinformazione e vecchi rancori sindacali stanno alimentando il caos sul referendum.

Spoiler: il contratto a tutele crescenti non è un’innovazione voluta dalla destra, e si, se almeno uno dei quesiti raggiungesse il quorum, la CGIL e gli altri promotori potrebbero ricevere un rimborso proporzionale al numero di firme valide presentate, fino al tetto massimo d2.582.285 euro annui per tutti i referendum.

 

 

FAKE NEWS 1:  “Non votare o consigliare di non farlo è anti-democratico”

FALSO – Chi non vota al referendum non compie un atti antidemocratico, al contrario.  Esso  è una strategia costituzionalmente riconosciuta ai sensi dell’Articolo 75 della Costituzione Italiana, che richiede un quorum del 50% + 1 degli aventi diritto per la validità.

Incoraggiare l’astensione è una tattica politica comune (es. Craxi negli anni ’90) e non equivale necessariamente a sabotaggio. L’affermazione dell’articolo secondo cui si tratta di un “subdolo disarmo” della democrazia ignora che anche scegliere di non votare è un diritto democratico.
Del resto durante i regimi dittatoriali come il fascismo non c’era possibilità di scegliere l’astensione.

Nelle dittature, i regimi tendono a controllare i processi elettorali o referendari per consolidare il loro potere e dimostrare consenso popolare. L’astensione è spesso vista come un atto di dissenso o di rifiuto del sistema, e quindi i regimi possono adottare misure per rendere la partecipazione praticamente obbligatoria, attraverso:
  • Obbligo legale: leggi che impongono il voto o puniscono l’astensione.
  • Pressioni sociali o coercizione: propaganda, minacce, intimidazioni o controllo sociale.
  • Manipolazione dei risultati: anche in caso di bassa partecipazione, i risultati possono essere falsificati per mostrare un’alta affluenza.

ESEMPIO

  • Durante il regime di Mussolini, le elezioni (come quelle del 1929 e 1934) furono trasformate in plebisciti per il Partito Nazionale Fascista. Non c’era una vera competizione elettorale, e il voto era fortemente controllato.
  • L’astensione era scoraggiata attraverso propaganda e pressione sociale. I cittadini erano spinti a votare per dimostrare lealtà al regime, e l’appartenenza a organizzazioni fasciste (come la Milizia o i sindacati fascisti) rendeva il controllo sulla partecipazione più stringente.
  • Nel plebiscito del 1929, l’affluenza ufficiale fu del 90%, ma era il risultato di un sistema che non ammetteva dissenso. Non votare poteva essere interpretato come un atto di opposizione, con rischi di ritorsioni.

 

FAKE NEWS 2:  “Il dibattito è stato soffocato sui principali media TV e radio nazionali”

FALSO – Un sondaggio Demos del maggio 2025 indica che il 91% degli italiani è a conoscenza del referendum e il 52% si sente informato, il che suggerisce un coinvolgimento pubblico significativo nonostante la presunta repressione.

 

 

FAKE NEWS 3:  “Il ripristino del reintegro per i licenziamenti illegittimi (mediante abrogazione del Decreto 23/2015) rafforza il potere contrattuale dei lavoratori e i salari”. Si sostiene che l’eliminazione del reintegro da parte del Jobs Act indebolisca il potere contrattuale dei lavoratori, portando a salari più bassi. Ripristinare l’Articolo 18 (come modificato dalla legge Fornero) migliorerebbe la leva contrattuale dei lavoratori.

FALSO: Il legame tra tutele di reintegro e salari più alti non è diretto.

Studi economici (es. OCSE) mostrano che normative rigide sulla protezione dell’occupazione possono ridurre la flessibilità del mercato del lavoro, scoraggiando le assunzioni, soprattutto nelle piccole imprese. Uno studio della Banca d’Italia del 2019 ha rilevato che le riforme del Jobs Act, incluso il Decreto 23/2015, hanno aumentato del 7-10% le assunzioni a tempo indeterminato nelle grandi imprese grazie alla riduzione dei costi di licenziamento, sostenendo così indirettamente la stabilità salariale.

Chi è a favore del referendum  cita dati ISTAT che indicano un calo del 4% nei contributi sociali datoriali dal 2007 al 2020 e una riduzione del 10% nei salari netti.  Tuttavia, omette che la stagnazione salariale in Italia è un problema strutturale legato alla bassa crescita della produttività (0,4% annua tra 2000 e 2020 secondo ISTAT) e a tendenze globali. Ad esempio, la Germania, con leggi sui licenziamenti meno rigide, ha registrato una crescita salariale dell’1,5% annua nello stesso periodo, suggerendo che fattori come la competitività economica siano più rilevanti.

 

FAKE NEWS 4:  “Ripristinare l’Articolo 18 potrebbe scoraggiare investimenti nei settori con alto turnover lavorativo, poiché le imprese affrontano maggiori rischi”.

FALSO: Uno studio della Bocconi del 2016 ha mostrato che l’alleggerimento dell’Articolo 18 tramite la riforma Fornero ha aumentato la produttività aziendale dell’1-2%, indicando che tutele rigide possono penalizzare l’efficienza economica senza garantire un miglioramento salariale.

 

“FAKE NEWS 5: Il Jobs Act offre meno tutele rispetto all’Articolo 18 modificato dalla Fornero, garantendo solo 6-36 mesi di indennizzo contro i 39 mesi più il reintegro” Viene sostenuto cioè che l’Articolo 18 post-Fornero offra fino a 39 mesi di compensazione (15 mesi per rinuncia al reintegro + fino a 24 mesi di indennizzo), mentre il Jobs Act solo 6-36 mesi, risultando meno generoso.

CONFRONTO FUORIVIANTE: Il calcolo dei 39 mesi assume che il reintegro sia sempre applicabile, ma non è così. L’Articolo 18 post-Fornero prevede il reintegro solo in casi specifici (es. licenziamenti discriminatori o nulli, o per “insussistenza del fatto”).

Per la maggior parte dei licenziamenti illegittimi si applica solo l’indennizzo (5-24 mesi). Il Jobs Act, invece, prevede un’indennità automatica (6-36 mesi, post Decreto Dignità), riducendo l’incertezza legale. Si enfatizza il valore “simbolico e strategico” del reintegro, ma trascura le difficoltà pratiche. Prima del Jobs Act, il reintegro avveniva in meno del 2% dei casi (dati INPS 2014) a causa di processi lunghi (2-3 anni) e relazioni compromesse tra le parti. L’indennità più alta del Jobs Act (fino a 36 mesi) offre spesso una soluzione più rapida e concreta, preferita da molti lavoratori.

Chi è a favore del referendum afferma che il  reintegro scoraggia i licenziamenti arbitrari, ma tutele rigide possono anche scoraggiare le assunzioni. Un rapporto ISTAT del 2017 ha rilevato che prima del Jobs Act le imprese con più di 15 dipendenti (soggette all’Articolo 18) assumevano il 20% in meno rispetto alle più piccole, suggerendo che il reintegro fungeva da deterrente occupazionale. La prevedibilità del Jobs Act ha incentivato i contratti stabili (+7% tra 2015 e 2017, Banca d’Italia 2019).

FAKE NEWS 6 – “Le correzioni della Corte Costituzionale al Decreto 23/2015 sono insufficienti, e il referendum è necessario poiché la legge potrebbe essere ancora incostituzionale o ingiusta” – Si evidenzia che il Decreto è stato parzialmente bocciato dalla Consulta con cinque sentenze, ma sostiene che ciò non basta, e un referendum è giustificato poiché la legge potrebbe comunque essere incostituzionale o iniqua, anche se non ancora impugnata.

FALSO: La Corte può solo pronunciarsi sulla costituzionalità, non sulle preferenze politiche. Le cinque sentenze (es. n. 59/2021, 194/2018) hanno già eliminato elementi critici, come le formule rigide per l’indennizzo. Le sollecitazioni al Parlamento per ulteriori riforme rientrano nella normale dialettica legislativa e non indicano una crisi tale da giustificare un referendum.

Chi è a favore del referendum suggerisce in maniera ingannevole che un referendum possa correggere falle sistemiche, ma i referendum abrogativi possono solo eliminare singole norme, non riformare interi sistemi. L’abrogazione del Decreto 23/2015 ripristinerebbe il regime Fornero, anch’esso criticato per la complessità e per la limitata applicabilità del reintegro (solo nel 10-15% dei casi di licenziamento illegittimo, dati 2013). Ciò rischia di generare incertezza giuridica senza miglioramenti garantiti. Chi è a favore del referendum  attribuisce malamente  l’esigenza di referendum all’assenza di volontà politica, ma ignora che le riforme sul lavoro sono sempre state controverse. Sia la legge Fornero (2012) che il Jobs Act (2015) cercavano di bilanciare flessibilità e tutele. Un referendum rischia di polarizzare il dibattito senza affrontare i veri nodi economici, come la bassa crescita della produttività in Italia (0,4% annua, ISTAT 2000-2020).

FAKE NEWS 7 :  ” L’abrogazione di parti del Jobs Act non provocherà caos, perché i quesiti referendari sono progettati per essere coerenti e autosufficienti” . Ovvero si sostiene che l’obiezione del tipo “slippery slope” sia infondata perché i quesiti sono per legge coerenti e autosufficienti, lasciando il sistema giuridico intatto.

FALSO: Anche se i quesiti devono essere ammissibili dalla Corte Costituzionale (es. sentenza 16/1978), ciò non garantisce coerenza applicativa. L’abrogazione del Decreto 23/2015 reintrodurrebbe l’Articolo 18 per gli assunti post-2025, ma non per quelli assunti dal 2015 al 2025, creando un doppio regime difficile da gestire. Un precedente simile (2012-2015) portò a un +15% di contenziosi sul lavoro (INPS, 2016).

L’articolo minimizza i rischi, ma il ritorno a tutele rigide potrebbe scoraggiare gli investimenti. Un rapporto OCSE del 2016 evidenzia che l’elevata protezione del lavoro in Italia prima del Jobs Act riduceva gli investimenti diretti esteri del 10-15% rispetto a paesi come la Spagna. Eliminare le misure di flessibilità potrebbe vanificare i progressi fatti in termini di assunzioni stabili (+7-10%, Banca d’Italia 2019).

Anche se il sistema giuridico rimane “intatto”, l’abrogazione di singole norme (es. sui contratti a termine o sugli appalti) può creare vuoti applicativi fino a nuove leggi, con conseguente incertezza per imprese e lavoratori.

 

PER FINIRE 

Il Contratto a tutele crescenti non è un’innovazione della destra

 

Il contratto a tutele crescenti è stato introdotto in Italia con il Jobs Act (Legge 183/2014 e decreti attuativi del 2015), varato dal governo Renzi, guidato dal Partito Democratico (centrosinistra), non dalla destra. Questo contratto, applicato ai nuovi assunti a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015, aveva l’obiettivo di riformare il mercato del lavoro, rendendo i contratti a tempo indeterminato più flessibili per i datori di lavoro e incentivando le assunzioni.
Caratteristiche principali:
  • Tutele crescenti: in caso di licenziamento illegittimo, l’indennità economica per il lavoratore aumenta in base all’anzianità di servizio (generalmente 2 mensilità per ogni anno di lavoro, con un minimo di 6 e un massimo di 36 mensilità).
  • Riduzione delle tutele tradizionali: rispetto all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (che prevedeva la reintegra nel posto di lavoro per i licenziamenti illegittimi nelle aziende con più di 15 dipendenti), il contratto a tutele crescenti elimina la reintegra nella maggior parte dei casi, salvo licenziamenti discriminatori o nulli.
  • Obiettivo: ridurre la precarietà, incentivando le assunzioni a tempo indeterminato con costi di licenziamento più prevedibili per le imprese.
Perché non è della destra?
Nonostante sia stato spesso criticato da sindacati e parti della sinistra come una misura “di destra” per la maggiore flessibilità concessa ai datori di lavoro, il contratto a tutele crescenti è stato ideato e implementato da un governo di centrosinistra. La destra (es. Lega o Fratelli d’Italia) non ha avuto un ruolo diretto nella sua creazione, anche se alcune sue componenti ne hanno appoggiato l’approccio pro-impresa. La CGIL, in particolare, si è opposta al Jobs Act, considerandolo una riduzione delle tutele dei lavoratori, e per questo ha promosso uno dei quesiti referendari del 2025 per abrogare parti di questa normativa.

Sul rimborso per i referendum

La Legge 352/1970 prevede un rimborso per i promotori di referendum abrogativi, pari a 1 euro per ogni firma valida raccolta, fino a un tetto massimo di 2.582.285 euro annui per tutti i referendum. Questo rimborso è erogato solo se almeno uno dei quesiti referendari raggiunge il quorum (50% + 1 degli aventi diritto al voto).
  • Quesiti referendari: La CGIL ha raccolto circa 4 milioni di firme per i quattro quesiti sul lavoro (tra cui l’abrogazione di parti del Jobs Act, come il contratto a tutele crescenti), mentre altri promotori (es. +Europa) hanno raccolto 637.000 firme per il quesito sulla cittadinanza.
  • Calcolo del rimborso: Se almeno uno dei cinque quesiti raggiungesse il quorum, il rimborso totale (fino a 2.582.285 euro) sarebbe suddiviso proporzionalmente tra i promotori in base al numero di firme valide presentate. Ad esempio:
    • Le firme della CGIL (4 milioni) rappresentano circa l’86% del totale delle firme raccolte (4 milioni + 637.000 = 4.637.000). In teoria, la CGIL potrebbe ricevere circa l’86% del tetto massimo, ovvero intorno a 2,2 milioni di euro, se tutti i quesiti fossero validi e il quorum fosse raggiunto per almeno uno.
    • Tuttavia, se solo alcuni quesiti raggiungessero il quorum, la ripartizione potrebbe cambiare, e l’importo effettivo dipenderebbe dai dettagli tecnici (firme validate dalla Corte di Cassazione e numero di quesiti validi).

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