Gli Stati Uniti amano raccontarsi come un’eccezione morale: la “città sulla collina”, la democrazia modello, il paese della libertà. Ma sotto questa narrazione patinata scorre da sempre un’altra storia, più scomoda e più vera: quella di una nazione profondamente irrisolta, costruita su contraddizioni mai davvero affrontate. Oggi, con Donald Trump e ciò che rappresenta, quelle contraddizioni non sono un’anomalia. Sono un’esplosione tardiva.
Fin dalla nascita, gli Stati Uniti sono stati un paradosso vivente. Una repubblica fondata sulla libertà che prosperava sulla schiavitù. Una costituzione che proclamava l’uguaglianza mentre escludeva donne, nativi americani e milioni di persone nere. La violenza non fu un incidente del percorso: fu uno strumento fondativo. Espansione, conquista, sterminio, segregazione — tutto avvenne sotto il linguaggio nobile del destino manifesto.
[A sinistra: la locandina del film, “Il diritto di contare“: basato su una storia vera].
Il Novecento non risolse queste fratture, le mascherò. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’America emerse come potenza globale e arbitro morale del mondo libero. Ma mentre esportava democrazia, praticava colpi di stato all’estero; mentre denunciava i totalitarismi, perseguitava dissidenti interni; mentre celebrava il sogno americano, costruiva quartieri segregati e carceri di massa. Il maccartismo, la repressione dei diritti civili, la guerra del Vietnam: ogni volta che l’America si sentiva minacciata, reagiva restringendo libertà invece di ampliarle.
Donald Trump non nasce nel vuoto. È il prodotto diretto di questa storia. La sua ascesa non è una deviazione improvvisa, ma la rimozione finale della maschera. Con lui, ciò che prima era implicito diventa esplicito: il disprezzo per le istituzioni, la normalizzazione della menzogna, il culto della forza, la nostalgia per una grandezza che esisteva solo per pochi. Trump non ha creato il rancore, lo ha legittimato. Non ha inventato il razzismo strutturale, lo ha reso linguaggio politico. Non ha distrutto la fiducia democratica, ha mostrato quanto fosse già fragile.
Il problema non è solo Trump come individuo, ma ciò che milioni di americani hanno riconosciuto in lui: la possibilità di non doversi più vergognare delle proprie paure, del proprio risentimento, del proprio rifiuto del cambiamento. In questo senso, Trump è uno specchio. Riflette un paese che non ha mai fatto i conti fino in fondo con la propria storia di violenza, disuguaglianza e esclusione.
Ancora oggi, gli Stati Uniti restano una nazione in cui il diritto di voto è contestato, in cui il colore della pelle influenza le probabilità di sopravvivere a un incontro con la polizia, in cui la ricchezza determina l’accesso alla salute, all’istruzione, persino alla giustizia. Una nazione in cui la libertà di parola è sacra, ma la verità è opzionale. In cui si invoca Dio, ma si ignora la compassione.
Dire che l’America è “problematica” non significa negarne le conquiste, né ignorare le lotte di chi, al suo interno, ha sempre cercato di renderla migliore. Al contrario: significa riconoscere che il conflitto è la sua costante, non l’eccezione. Che il progresso è sempre stato strappato, mai concesso. E che ogni volta che il paese ha rifiutato di guardarsi allo specchio, ha prodotto mostri politici.
Trump non è la fine della storia americana. È un capitolo coerente. E finché gli Stati Uniti continueranno a raccontarsi come innocenti invece che come responsabili, come salvatori invece che come partecipanti al caos che denunciano, resteranno ciò che sono sempre stati: una grande potenza, sì — ma una nazione profondamente irrisolta.
Non è una tragedia inevitabile.
Ma è una verità che non può più essere evitata.
Chaplin, la mia cartina di tornasole

Penso a Charlie Chaplin come cartina di tornasole. Sempre.
Ogni volta che voglio capire da che parte sta la giustizia, guardo dove si è schierato lui — e, soprattutto, contro chi.
Chaplin stava dalla parte degli ultimi quando essere “apolitici” era la scusa dei potenti. Ridicolizzava i ricchi mentre il mondo li venerava. Trasformava la fame, la miseria e l’umiliazione in comicità, non per banalizzarle, ma per renderle insopportabili agli occhi di chi guardava. Il Vagabondo non chiedeva compassione: pretendeva dignità.
Quando Hollywood chiedeva silenzio, Chaplin parlava.
Quando l’America pretendeva gratitudine, lui rispondeva con satira.
Quando il potere voleva consenso, lui offriva dissenso.
Problematiche di Charlie Chaplin con il governo degli Stati Uniti
Nel 1952, durante il maccartismo, a Charlie Chaplin fu negato il rientro negli Stati Uniti senza sottoporsi a interrogatori politici e morali, misura che rifletteva il clima di sospetto tipico della Guerra fredda.
Le sue opere cinematografiche, in particolare Tempi moderni (1936) e Il grande dittatore (1940), furono interpretate da ambienti conservatori come critiche al capitalismo e all’ordine politico occidentale, contribuendo ad alimentare l’ostilità nei suoi confronti.
Un ulteriore elemento di sospetto fu il rifiuto di assumere la cittadinanza statunitense. Pur vivendo negli Stati Uniti dal 1914, Chaplin rimase cittadino britannico, scelta che durante la Guerra fredda venne letta come una mancanza di lealtà politica.
Le indagini dell’FBI, avviate già nel 1922 e intensificatesi negli anni Quaranta, portarono J. Edgar Hoover ad aprire un dossier molto ampio su Chaplin. L’FBI monitorò discorsi pubblici, frequentazioni e donazioni politiche, senza tuttavia trovare prove concrete di attività sovversive.
Alla pressione politica si aggiunsero accuse morali e scandali personali. Episodi come il processo per paternità nel caso Joan Barry (1943) e le relazioni con donne molto giovani furono ampiamente strumentalizzati per screditarlo. Sebbene Chaplin fosse assolto penalmente, la sua immagine pubblica risultò gravemente compromessa.
In questo contesto operarono anche le pressioni del Comitato per le Attività Antiamericane (HUAC), che indicò Chaplin come figura politicamente sospetta. Pur non essendo mai formalmente convocato, gli fu richiesto di sottoporsi a interrogatori politici e morali come condizione per il rientro negli Stati Uniti.
La situazione culminò nella revoca del permesso di rientro nel 1952. Durante un viaggio in Europa per la prima di Luci della ribalta, il Procuratore Generale James P. McGranery annullò il suo re-entry permit, comunicandogli che avrebbe potuto rientrare solo dopo un interrogatorio sulle sue idee politiche e sulla sua vita privata.
Di fronte a questa decisione, Chaplin compì la scelta dell’esilio volontario, rifiutando quella che considerava un’umiliazione. Si stabilì definitivamente in Svizzera, a Corsier-sur-Vevey, al Manoir de Ban, insieme alla sua famiglia.
Negli anni dell’esilio si registrò un evidente ostracismo culturale a Hollywood: molti ambienti dell’industria cinematografica presero le distanze da Chaplin e i suoi film conobbero una ridotta distribuzione negli Stati Uniti.
Solo nel 1972 avvenne una riammissione simbolica. Il governo statunitense consentì il suo rientro per il conferimento dell’Oscar onorario, e il lungo applauso ricevuto in quella occasione segnò una tardiva riabilitazione morale e culturale.
IL GRANDE REGISTA
Il grande dittatore non fu solo un film: fu un atto di disobbedienza morale. Chaplin denunciò Hitler quando molti lo giustificavano, lo minimizzavano, lo corteggiavano. Lo fece senza eserciti, senza bandiere, con l’arma più pericolosa di tutte: il ridicolo. E quando, finita la guerra, l’America decise che la critica non era più tollerabile, lo punì. Non per quello che aveva fatto, ma per quello che rappresentava.
Lo accusarono di immoralità, di simpatie sbagliate, di non essere abbastanza americano. In realtà, il suo vero crimine fu non piegarsi. Fu ricordare a una nazione che la libertà non è un premio, ma una pratica quotidiana. E che la giustizia fa sempre rumore, soprattutto quando disturba i vincitori.
Per questo Chaplin è la mia cartina di tornasole.
Se viene attaccato, so che il problema non è lui.
Se viene esiliato, so che il potere ha paura.
Se viene ridicolizzato, so che ha colpito nel segno.
Chaplin non stava “contro l’America”. Stava contro l’ingiustizia. E l’America, troppe volte, ha confuso le due cose.
Guardare Chaplin oggi significa fare una scelta. Significa decidere se stare dalla parte di chi ride del potere o di chi lo protegge. Di chi difende gli ultimi o di chi teme di perdere i privilegi. Di chi accetta il conflitto morale o di chi lo silenzia.
Io ho scelto da tempo.
E ogni volta che il mondo diventa più cinico, più crudele, più arrogante, torno lì.
A Chaplin.
Alla mia cartina di tornasole.
FOTO IN COPERTINA
Nella foto di copertina: Charlie Chaplin a 27 anni era già un attore da oltre 600.000 dollari l’anno, una cifra mai vista per un artista fino ad allora, quando scritturò la diciannovenne Edna Purviance, facendone la sua primadonna in ben 35 film fra il 1916 e il 1923. Dal momento della firma del suo nuovo contratto, Chaplin disponeva anche di uno studio personale con relativo staff, una sala per le proiezioni, uffici ed alloggi per gli attori.

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