La lettura dell’ultima opera di Gianni Oliva, LA PRIMA GUERRA SOCIALE, ci permette di vedere la Storia non solo nell’aspetto controverso di una verità parziale ed incompleta , ma che attraverso il racconto, interroga il lettore sui meccanismi del potere, sulle ferite della memorie, sulle responsabilità individuali e collettive, ricordandoci che ogni conquista della libertà nasce da conflitti, compromessi e scelte difficili, e che il passato -lungi dall’essere archiviato- continua a premere sul presente orientando il nostro futuro. Ci obbliga a prendere visione di quella verità mai raccontata, rimasta fra le pieghe della storia vissuta dai vincitori e quella mai raccontata dai vinti.
Nel capitolo L’annessione del Mezzogiorno del libro La prima guerra civile, Gianni Oliva si sofferma su una serie di episodi che segnarono la difficilissima transizione dal Regno delle Due Sicilie al nuovo Stato unitario. Tra questi, la rivolta di Bronte occupa un posto emblematico: un fatto di sangue accaduto nell’agosto del 1860 che, pur nella sua dimensione locale, divenne il simbolo di una frattura sociale profonda tra i contadini del Sud e le élite che avrebbero governato il nuovo Regno d’Italia.

Bronte, cittadina etnea di antica storia feudale, era dominata da una struttura agraria iniqua. Gran parte delle terre apparteneva al famoso “Duca di Nelson”, erede della donazione che Ferdinando I di Borbone aveva concesso all’ammiraglio inglese nel 1799, in segno di riconoscenza per averlo aiutato a reprimere la Repubblica Napoletana. La popolazione viveva invece in condizioni di estrema povertà, legata alla terra senza possederla, soggetta a soprusi e privazioni.
Quando nell’estate del 1860 Garibaldi e i suoi volontari sbarcarono in Sicilia, proclamando “Italia e libertà”, molti contadini del Mezzogiorno credettero che il nuovo tempo politico avrebbe significato anche la fine dei vecchi padroni, la divisione delle terre, un riscatto sociale finalmente possibile. Ma presto la realtà smentì le illusioni. Le autorità garibaldine locali si trovarono a gestire un equilibrio fragile: da un lato i ceti proprietari, preoccupati per l’ordine, dall’altro un popolo esasperato da secoli di ingiustizia.
A Bronte, il 2 agosto 1860, le tensioni esplosero in maniera drammatica. La miccia fu una voce, forse un equivoco, forse una strumentalizzazione: si diceva che Garibaldi avesse concesso ai contadini il diritto di prendere le terre e punire i vecchi oppressori. La folla insorse con rabbia antica e incontrollata: case incendiate, notabili e borghesi uccisi, una furia di giustizia e vendetta che in poche ore travolse il paese.
Per Gianni Oliva, quell’insurrezione non fu una semplice sommossa, ma una delle prime crepe nel mito del Risorgimento liberatore. Nel suo saggio, lo storico torinese sottolinea come l’Italia nascente non fu accolta ovunque con entusiasmo unanime: nel Sud, la “libertà” arrivò accompagnata da eserciti, tasse, coscrizioni e nuove gerarchie. La rivolta di Bronte, repressa con durezza dalle stesse truppe garibaldine, mostra come il processo di unificazione si intrecciò a una guerra civile latente, combattuta tra italiani di diversa condizione e speranza.
Garibaldi, informato dei fatti, inviò a Bronte un suo uomo di fiducia, Nino Bixio, con il compito di ristabilire l’ordine. L’intervento fu immediato e spietato: un tribunale militare improvvisato condannò a morte cinque uomini, in un processo sommario che ancora oggi suscita discussioni e polemiche. L’“ordine” fu ristabilito, ma al prezzo del sangue e della paura.
E qui entra in scena Giovanni Verga, che alcuni decenni dopo trasformò quella vicenda in un racconto simbolo: Libertà. Verga non descrive la rivolta di Bronte in termini politici, ma come tragedia umana e collettiva, dove la parola “libertà” diventa un suono misterioso e terribile, un miraggio che sfugge di mano. Nel racconto, la folla è senza volto, travolta da un desiderio di riscatto che degenera in violenza: “Avevano la libertà, e non sapevano che farsene.”
La prosa verghiana restituisce con potenza il disincanto e la disperazione di un popolo che confonde la giustizia con la vendetta, perché nessuno gli ha insegnato cosa sia davvero la libertà civile. Quando arriva la repressione, la stessa folla che aveva gridato “Viva Garibaldi!” si ritrova smarrita, impaurita, colpevole e punita: un cerchio tragico che si chiude nella delusione.
Gianni Oliva, nella sua analisi, cita episodi come Bronte per demitizzare la narrazione ufficiale del Risorgimento. L’Unità d’Italia, sostiene, non fu soltanto un processo di liberazione nazionale, ma anche l’avvio di una lunga incomprensione tra Nord e Sud, tra Stato e popolo, tra legalità e giustizia sociale.
La rivolta di Bronte, vista in questa prospettiva, è una “microstoria paradigmatica”: in essa si concentrano le illusioni e i fallimenti di un’intera stagione storica. Gli ideali risorgimentali — libertà, patria, progresso — si scontrano con la miseria reale di un popolo che da secoli sopravvive in condizioni di semi-servitù.
Per Verga, l’episodio è una tragedia dell’ignoranza e del destino; per Oliva, è un segno politico di frattura nazionale. Ma entrambi — lo scrittore e lo storico — convergono nel riconoscere a Bronte la funzione di specchio crudele della storia italiana: là dove la promessa di libertà si è rovesciata nel suo contrario, nella repressione e nella delusione.
La “prima guerra civile” di Oliva comincia anche da questi fatti: dalle rivolte contadine, dai moti antiunitari, dai banditi che diventano simbolo di resistenza o di disperazione. Bronte, in questo senso, non è un episodio marginale, ma un prologo tragico della lunga questione meridionale, che accompagnerà l’Italia per più di un secolo.
La libertà gridata e poi soffocata nelle piazze di Bronte, la giustizia attesa e mai arrivata, la repressione garibaldina che sostituisce quella borbonica — tutto questo rappresenta la nascita di una contraddizione storica profonda: l’Unità fatta “contro” una parte del popolo che avrebbe dovuto rappresentare.
Verga ne trasse un racconto immortale; Oliva, un capitolo di storia civile. Entrambi ci ricordano che l’Italia nacque anche dal dolore e dal disincanto, e che senza comprenderne le radici sociali e morali, il Risorgimento resta incompiuto.
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