di Yakob Berga
In copertina: Terra primordiale (immagine di fantasia)
Fondali marini, fumarole vulcaniche, ghiacciai e solfatare, sono ambienti che, a prima vista, sembrano del tutto inospitali per la vita, eppure, in questi luoghi estremi esistono, da miliardi di anni, microrganismi straordinari, perfettamente adattati a sopravvivere senza difficoltà.
Per capire come ciò sia possibile, dobbiamo guardare alle origini della vita sulla Terra, quando il nostro pianeta era ben diverso da quello che conosciamo oggi. Miliardi di anni fa, infatti, l’ambiente terrestre era molto più ostile, ma fu proprio in quelle condizioni che comparvero i primi abitanti del pianeta: microrganismi appartenenti al dominio Archaea, capaci di vivere in ambienti estremi. Per questo motivo, vengono definiti estremofili.
Questi microrganismi sono in grado di vivere in presenza di pressione estrema (barofili), di temperature molto alte (termofili) o basse (psicrofili), in assenza di acqua (xerofili) o in ambienti particolarmente acidi (acidofili) o basici (alcalofili).
Un esempio di estremofilo è il batterio Deinococcus Radiodurans (DR), capace di resistere a radiazioni con intensità di 500.000 Rad (quando per uccidere un essere umano ne basterebbero solo 500!). Questa straordinaria resistenza alle radiazioni è dovuta al fatto che questo batterio possiede copie del proprio DNA e dei meccanismi di riparazione incredibilmente veloci, che gli permettono di rigenerarlo in poche ore. Quindi, grazie a questo sistema, il Deinococcus Radiodurans è in grado di sopravvivere in ambienti estremamente radioattivi.
La resistenza di questo batterio è stata verificata durante la missione Tanpopo, un progetto frutto della collaborazione di più enti di ricerca internazionali, coordinato dalla JAXA assieme ad istituzioni accademiche come il Chiba Institute of Technology, il CNRS e l’Università di Vienna, volto a provare l’ipotesi della panspermia ovvero della possibilità del verificarsi di un trasferimento interplanetario della vita microbica nell’arco di alcuni anni.
Lo studio si è svolto posizionando pellet cellulari disidratati di batteri del genere Deinococcus in pozzetti di piastre d’alluminio montate su pannelli esposti all’esterno della Stazione Spaziale Internazionale (ISS) e osservando poi i risultati dopo alcuni anni.
Successivamente si è osservato che i pellet cellulari disidratati di DR con spessore di 500 μm erano ancora vitali dopo 3 anni di esposizione nello spazio e hanno mostrato la capacità di riparare i danni al DNA una volta tornati in coltura provando di essere in grado di sopravvivere a radiazioni UV estreme, radiazioni ionizzanti, disidratazione e stress ossidativo.
Un altro tipo di organismi molto resistenti è invece quello dei tardigradi, un phylum del regno animale di esseri di piccole dimensioni (0,1-1,5 millimetri) in grado di resistere per anni in situazioni estreme come: la mancanza di acqua o ossigeno, pressioni e/o temperature particolarmente alte o basse e radiazioni intense. Questo perché essi sono in grado di attuare una serie di meccanismi di protezione ed interruzione delle attività vitali ed entrare in uno stato di quiescenza chiamato criptobiosi nel quale viene espulsa quasi tutta l’acqua presente nell’organismo e lo svolgimento di ogni processo metabolico viene sospeso per il tempo necessario, che può essere anche di mesi o anni. Grazie a delle particolari proteine infatti i tardigradi possono far sì che anche in assenza di acqua la struttura delle loro cellule venga conservata, ed essi quindi, una volta passato il pericolo, possono riprendere la loro normale vita come se niente fosse accaduto.
I tardigradi inoltre sono in grado di sopravvivere alle radiazioni solari anche al di fuori dell’atmosfera, possiedono infatti una proteina chiamata D-sup che funge da scudo dalle radiazioni per il loro DNA impedendone il danneggiamento.
Gli esseri umani e lo spazio
L’uomo fin dalla preistoria è sempre stato incuriosito dalle stelle e ha osservato il cielo notturno con meraviglia e curiosità. Millenni or sono civiltà come Egizi, Babilonesi, Maya, Cinesi, Greci ed Indiani hanno iniziato a studiare la volta celeste, ad individuare determinati fenomeni e costellazioni e ad utilizzarla per orientarsi e/o per scandire il tempo.
Col Rinascimento poi, grazie al contributo di grandi scienziati come Johannes Kepler, Galileo Galilei, Isaac Newton e Niccolò Copernico, si posero le basi dell’astronomia moderna e venne rivoluzionato il modo di studiare e concepire lo spazio extra atmosferico.
Successivamente, durante la Guerra fredda, grazie alla corsa allo spazio, sono stati fatti enormi passi in avanti e l’umanità ha raggiunto traguardi importantissimi come la spedizione del primo uomo nello spazio e lo sbarco sulla luna.
Oggi l’esplorazione del cosmo è ancora uno degli argomenti che più affascinano gli esseri umani, i quali sono il frutto di un processo evolutivo durato milioni di anni che però è avvenuto sulla Terra, con la protezione dell’atmosfera, a determinate temperature e pressioni e non nel vuoto dello spazio, il quale risulta dunque, per noi, un ambiente estremamente ostile.

Sfide e contromisure
Le principali sfide da affrontare sono dovute dall’assenza di un’atmosfera e dunque dalla mancanza di ossigeno, di pressione e di protezione dalle radiazioni.
Per quanto riguarda l’ossigeno e la pressione, si è stati in grado di ovviare il problema creando delle atmosfere artificiali per astronavi e tute spaziali in grado di garantire la sopravvivenza degli astronauti durante la permanenza nello spazio e nel corso delle operazioni di EVA (Extravehicular Activity).
Queste atmosfere vengono realizzate a pressioni minori di quella terrestre, in modo di evitare l’esplosione della tuta o della capsula spaziale in questione, ma con concentrazioni di ossigeno maggiori, cosicché la quantità di ossigeno inspirato resti la stessa.
L’unica eccezione è la Stazione Spaziale Internazionale la quale è stata progettata in modo da poter supportare una pressione di 101 300 Pascal e ha quindi un atmosfera molto simile a quella terrestre composta per il 21,6% da ossigeno, per lo 0,6% da anidride carbonica e per il restante 71,8% da azoto, in questo modo gli astronauti possono vivere in condizioni più naturali.
Un altro problema che però resta ancora irrisolto è quello delle radiazioni, infatti il sole, come ogni stella, emette un gran numero di radiazioni ad ogni lunghezza d’onda ed esse sono in grado di danneggiare il DNA delle cellule e portare diversi problemi, tra cui: cancro, danni al sistema nervoso centrale o agli occhi o SAR (sindrome da radiazione acuta).
Mentre siamo nell’atmosfera lo strato di ozono e la magnetosfera terrestri ci proteggono dalla maggior parte delle radiazioni solari e cosmiche, ma nello spazio esterno siamo totalmente privi di protezione e l’esposizione prolungata diventa molto pericolosa.
Lo studio degli estremofili
Per capire come sopravvivere in ambienti difficili come quelli extra atmosferici possiamo studiare chi già ci riesce!
Uno studio condotto da una serie di università ed enti di ricerca iraniani e pubblicato nel 2020 nella sezione riguardante la biologia del Journal of Photochemistry and Photobiology si propone di applicare i meccanismi di riparazione del DNA del Deinococcus Radiodurans a cellule umane.
In particolare, l’obiettivo dell’esperimento è di rendere le cellule umane in grado di riprendersi dall’esposizione ai raggi UV i quali sono causa di danni al DNA che potrebbero portare mutazioni cancerogene; i principali problemi dovuti ai raggi UV riscontrati nelle cellule esposte sono il Cyclobutane Pyrimidine Dimer (CPD) ossia una lesione del DNA dove due basi pirimidiniche adiacenti si legano, causando mutazioni, e il 6-4 Photoproduct (6-4 pp) ossia un altro tipo di lesione che distorce la struttura del DNA.

Le cellule umane possiedono dei meccanismi di mantenimento dell’integrità genetica, in particolare due sistemi principali per la riparazione del DNA: il Base Excision Repair (BER) e il Nucleotide Excision Repair (NER). Il BER si occupa di riparare piccoli danni localizzati su singole basi del DNA, come quelli causati da ossidazione o metilazione. Tuttavia, dato che le cellule umane non possiedono una glicosilasi iniziatrice, ossia un enzima specifico che individui lesioni come il CPD e il 6-4 pp e rimuova le basi azotate danneggiate, il BER non è in grado di riconoscere e riparare efficacemente i danni causati dall’esposizione ai raggi UV. Al contrario, il sistema NER è specializzato nel riconoscere e rimuovere queste lesioni, ma la sua azione è più lenta e, in caso di esposizione intensa o prolungata ai raggi UV, i danni possono accumularsi più rapidamente di quanto il sistema riesca a riparare, aumentando così il rischio di mutazioni potenzialmente cancerogene. Lo studio iraniano ha quindi cercato di superare questi limiti introducendo nelle cellule umane il gene uvsE proveniente dal batterio DR e codificante per la proteina UVSE responsabile del ripristino del DNA esposto a raggi UV.
L’obiettivo prefisso era valutare se la proteina ricombinante UVSE potesse migliorare l’efficienza della riparazione dei danni UV nelle cellule umane, fornendo così un potenziale nuovo strumento per la prevenzione delle mutazioni indotte dai raggi UV e, in conclusione, si è potuto quindi osservare come, una volta inserito ed espresso, con un’espressione stabile il gene uvsE le cellule sono state in grado di riparare il 95% dei danni causati dai raggi UV in poche ore.
Si è quindi potuto concludere che Il prodotto ricombinante UVSE si è dimostrato altamente efficace nella riparazione dei danni al DNA causati dai raggi UV e potrebbe rappresentare un potenziale agente preventivo contro i tumori della pelle indotti dall’esposizione ultravioletta. Dunque grazie allo studio e al progresso scientifico potremmo essere in grado di individuare ed integrare i geni che codificano per gli enzimi che sono responsabili di questi processi di riparazione così efficaci e, in questo modo, riuscire a capire come poter proteggere le nostre cellule e, soprattutto, il nostro DNA dalle radiazioni cosmiche per poter continuare ad esplorare il vasto e misterioso universo che ci circonda.
Fonti
NASA
www.nasa.gov/directorates/esdmd/hhp/space-radiation/
PUBMED
Kawaguchi Y, Shibuya M, Kinoshita I, Yatabe J, Narumi I, Shibata H, Hayashi R, Fujiwara D, Murano Y, Hashimoto H, Imai E, Kodaira S, Uchihori Y, Nakagawa K, Mita H, Yokobori SI, Yamagishi A. DNA Damage and Survival Time Course of Deinococcal Cell Pellets During 3 Years of Exposure to Outer Space. Front Microbiol. 2020 Aug 26;11:2050. doi: 10.3389/fmicb.2020.02050. PMID: 32983036; PMCID: PMC7479814.
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PUBMED
Helalat SH, Moradi M, Heidari H, Rezaei F, Yarmohamadi M, Sayadi M, Dadashkhan S, Eydi F. Investigating the efficacy of UVSE protein at repairing CPD and 6-4 pp DNA damages in human cells. J Photochem Photobiol B. 2020 Apr;205:111843. doi: 10.1016/j.jphotobiol.2020.111843. Epub 2020 Feb 26. PMID: 32146269.
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