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Coldplay, Kisscam e la fine della privacy: benvenuti nell’era della gogna social

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Mi ero ripromesso di non parlarne, giuro. Di quella coppietta immortalata da ogni angolazione possibile, ripresa da chiunque avesse tra le mani uno smartphone. Tanto mi ha disgustato vedere come colleghi giornalisti, anche autorevoli, partecipavano alla gogna mediatica ripostando e commentando le foto di due perfetti sconosciuti.

La scena è ovunque: articoli, meme, analisi approfondite degne di un caso di geopolitica. Un’overdose di niente, spacciata per intrattenimento.
Uno addirittura ha commentato sotto un video: “Queste sono le cose che mi compensano la spesa di internet.”
Che soddisfazione, vero? Spendere 30 euro al mese per vedere due perfetti sconosciuti messi alla gogna pubblica.  È questa la nuova forma di circo romano: al posto dei leoni, i commenti su TikTok; al posto degli schiavi, gente comune diventata involontariamente contenuto virale. E il pubblico applaude, si indigna, ride e poi passa al prossimo.

Ma sapete qual è la parte più distopica? Che la prossima volta potremmo essere noi… voi. O i vostri cari, figli, nipoti.  Basta poco: una frase detta in pubblico, uno sguardo fuori posto, un costume al posto sbagliato nel momento sbagliato.
Perché sì, quando comprate un biglietto per un evento, iscrivetevi a un sito o scaricate un’app, spesso cedete allegramente i diritti anche cella vostra privacy.
In gergo tecnico si chiama “consenso informato”, ma diciamo la verità: chi se li legge davvero quelle 120 pagine in burocratese in corpo 6? Nessuno.
E così, “accetto termini e condizioni” si traduce in: fate pure di me ciò che volete.

Il risultato? Ogni vostra immagine, parola, gesto, smorfia può essere tagliata, montata, remixata e condivisa da chiunque. Per sempre. E se nel frattempo vi rovina un lavoro, una relazione, una reputazione… beh, peccato, dovevate pensarci prima di vivere in pubblico.

Ma tranquilli: la privacy non è morta, è semplicemente stata venduta. A pezzi. Al miglior offerente. 
Noi a quanto pare ne siamo pure felici, a giudicare da quanta gente continua a cliccare, guardare e condividere.

Non servono più spie, detective, né intercettazioni. Bastano un cellulare, una connessione e la fame di intrusione. I volontari del pubblico ludibrio – milioni di utenti appassionati di “inchieste morali” – si attivano in branco. Zoomano, incrociano dati, analizzano dettagli. In poche ore: identità trovate, vite distrutte. CEO sposato, collega altrettanto. Non tra loro, ovviamente.

La privacy non è più un diritto, è un’ingenuità. La moglie del CEO, a tempo record, cancella il cognome dal profilo. Nella liturgia digitale, questo è un atto pubblico: dichiarazione di guerra o, più probabilmente, ammissione di sconfitta.

E non è neppure questo il punto. Il punto è che non puoi nasconderti. Da nessuna parte. Nemmeno nel salotto di casa, col telefono poggiato sul tavolo. Siri ascolta. Alexa annota. L’algoritmo deduce. Tu parli di un viaggio, il giorno dopo ti arrivano pubblicità di hotel in quella città. Coincidenze? Solo se credi ancora a Babbo Natale.

Orwell ci aveva quasi preso, ma aveva pensato in piccolo. Il Grande Fratello non è uno: è una moltitudine. Siamo noi, tutti, armati di smartphone e nessun senso del limite. Ci osserviamo a vicenda, ci giudichiamo, ci archiviamo. Per gioco, per noia, per potere.

E mentre giochiamo agli investigatori, siamo anche le prossime prede. Perché nessuno è al riparo dallo screenshot sbagliato, dall’inquadratura di troppo, dall’amico che registra “per sbaglio”.

In fondo, la tecnologia ci aveva promesso libertà. Ci ha regalato una prigione illuminata bene, con tanto di selfie.
Abbiamo barattato la libertà per una manciata di follower e ora chiunque può rovinarci la vita, con un click e un’App.

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