Società

Astensione e populismo: due volti della stessa crisi di rappresentanza

non-voto

Dal voto silenzioso alla voce populista: metamorfosi del dissenso democratico

Negli ultimi decenni il rapporto tra cittadini e democrazia rappresentativa ha attraversato una trasformazione profonda, spesso letta in modo frammentario o superficiale. L’aumento dell’astensionismo, il ricorso alle schede bianche e nulle, così come l’ascesa dei movimenti populisti, vengono abitualmente interpretati come fenomeni distinti, quando non contrapposti.

Prenderemo in analisi l’affluenza alle urne nelle regionali 2025, secondo i dati ufficiali raccolti dai bollettini di voto:

  • Veneto: ~44,6 % di affluenza⁠ → quindi circa 55,4 % di astensionismo.  
  • Puglia: ~41,08 % di affluenza⁠ → circa 58,92 % di astensionismo.  
  • Campania: ~44,05 % di affluenza⁠ → circa 55,95 % di astensionismo.  

Se consideriamo queste tre regioni nel loro insieme, in media poco più di 4 elettori su 10 si sono recati alle urne, quindi l’astensione supera il 55 % su scala media nazionale per questa tornata.

Il dato di partecipazione è nettamente più basso rispetto alle elezioni regionali precedenti (ad esempio nel 2020 Veneto aveva circa il 61 % di affluenza) ed evidenzia un forte aumento dell’astensionismo nel voto regionale. Questi dati non fanno altro che confermare una partecipazione elettorale piuttosto bassa nelle consultazioni regionali italiane più recenti, con l’astensionismo maggioritario nella popolazione elettorale. Eppure, dietro queste diverse forme di comportamento politico si cela una medesima inquietudine: la crisi della rappresentanza e il senso diffuso di esclusione dal processo decisionale.

L’aumento del dissenso e dell’astensione al voto

Con questo articolo tentiamo di dare una lettura di tali dinamiche, interpretando il passaggio dal silenzio elettorale alla voce populista non come una rottura improvvisa, ma come una metamorfosi del dissenso democratico. Un dissenso che cambia linguaggio e strumenti, ma che affonda le sue radici in una medesima domanda di riconoscimento, legittimità e partecipazione. Analizzare questa trasformazione significa interrogarsi non solo sul destino del voto, ma sulla capacità stessa della democrazia di ascoltare ciò che, a lungo, ha preferito non sentire. Per lungo tempo una parte consistente del disagio politico si è manifestata attraverso un gesto discreto, quasi invisibile: l’astensione, la scheda bianca, il voto nullo. Un comportamento spesso liquidato come disinteresse, ma che in realtà ha costituito una zona grigia della partecipazione, uno spazio di dissenso non incanalato, privo di rappresentanza ma non di significato. Oggi quello stesso disagio ha cambiato forma, linguaggio e destinatari, trovando nel populismo contemporaneo un veicolo espressivo diretto, rumoroso e polarizzante. Il passaggio dal non-voto al voto populista non è una frattura, bensì una trasformazione. In entrambi i casi siamo di fronte a una critica radicale al sistema della rappresentanza, ma mentre la scheda bianca segnala una distanza, il populismo pretende una sostituzione: non chiede di migliorare l’offerta politica, ma di rovesciarne le regole simboliche e narrative.

L’astensionismo consapevole nasce da una crisi di fiducia strutturale. Il cittadino non si riconosce più nei partiti, percepiti come autoreferenziali, opachi, incapaci di tradurre interessi sociali in decisioni pubbliche. Il gesto di non votare diventa così una sospensione del mandato, un ritiro temporaneo dalla delega democratica. È una protesta fredda, razionale, individuale, che non costruisce comunità ma segnala una crepa profonda nel patto tra eletti ed elettori.

Il populismo, al contrario, opera una riattivazione emotiva della partecipazione. Non chiede al cittadino di tacere, ma di schierarsi. Dove il non-voto è sottrazione, il populismo è appropriazione: del linguaggio, dei simboli, della rabbia sociale. Il “popolo” evocato dai leader populisti non è una categoria sociologica, ma una costruzione discorsiva che semplifica il conflitto politico in un’opposizione binaria tra “noi” e “loro”, tra cittadini autentici ed élite illegittime. Eppure, le radici sono comuni. Entrambi i fenomeni si alimentano della disintermediazione: il venir meno dei corpi intermedi, dei partiti di massa, dei luoghi di elaborazione collettiva. Là dove la scheda bianca segnala l’assenza di alternative credibili, il populismo si presenta come alternativa totale, spesso indifferente alla coerenza programmatica ma fortissimo sul piano identitario.

Un altro punto di contatto è il rapporto con la competenza. L’elettore che sceglie il non-voto non è necessariamente ignorante o marginale; spesso è informato, critico, disincantato. Allo stesso modo, il consenso populista non si spiega solo con il disagio economico, ma con una domanda di riconoscimento: sentirsi ascoltati, nominati, restituiti a una centralità simbolica che la politica tradizionale ha smarrito.

La differenza cruciale sta nell’esito democratico. Il non-voto lascia il sistema intatto ma delegittimato; il populismo lo occupa e lo trasforma dall’interno. In questo senso, il populismo può essere letto come la traduzione politica del silenzio precedente: ciò che prima non trovava voce ora la trova, spesso in forma semplificata, conflittuale, talvolta illiberale.

La vera questione, allora, non è scegliere tra astensione e populismo, ma interrogarsi su ciò che entrambe le forme di dissenso rivelano: una democrazia che fatica a includere, a mediare, a dare senso alla partecipazione. Finché il sistema politico continuerà a interpretare il silenzio come assenza e la protesta come minaccia, il pendolo oscillerà tra ritiro e radicalizzazione.

Ricostruire la fiducia significa tornare a dare spessore alla rappresentanza, restituire credibilità alle istituzioni, riaprire spazi di partecipazione non plebiscitari. Altrimenti, la scheda bianca e il voto populista resteranno due capitoli della stessa storia: quella di una cittadinanza che non smette di parlare, anche quando sembra tacere. A volte certe verità ce l’abbiamo a portata di mano e non le sappiamo cogliere. Quelle che arrivano dall’analisi del voto è una di queste verità. Una fotografia, spesso impietosa, di una realtà che sfugge al nostro controllo e che lasciamo passare sotto i nostri occhi, perché l’esercizio del potere successivo al voto è troppo predominante al desiderio di capire, interpretare, correggere, rimodulare impostazioni politiche e sociali che ci imporrebbero l’esigenza di lavorare su nuovi valori, con il rischio di distrarci troppo da quell’esercizio del potere che comunemente chiamato “posizionamento” post elettorale.   

 

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