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USA: quando la libertà di parola diventa un optional

Vice President-Elect of the United States, JD Vance, meets a group of Tomb Guards in the Tomb of the Unknown Soldier Sentinel quarters at Arlington National Cemetery January 19, 2025. Vance, a former Marine, prioritized meeting the Tomb Guards during his visit to Arlington National Cemetery. Soldiers who volunteer to become Tomb Guards undergo an intensive 6 to 12 month training program to fine tune the precise movements and memory required for the meticulous ceremonies. (U.S. Army photo by Sgt. Samantha Cate)

Libertà di parola in pericolo? Negli USA è già sepolta: sanzioni, Big Tech senza regole e cittadini sotto controllo. Europa colpevole? Solo di difendere i propri utenti

Le dichiarazioni di J.D. Vance a Monaco secondo cui la libertà di parola in Europa sarebbe “in ritirata” e il Vecchio Continente incapace di innovare fanno sorridere amaramente. Non tanto per la critica all’Europa, quanto per l’evidente cecità verso ciò che succede oltreoceano.

Vance sembra dimenticare che gli Stati Uniti non solo non tutelano la libertà di parola, ma la comprimono attivamente. Le multinazionali americane, colossi privi di rispetto per la privacy, raccolgono dati su scala massiva, manipolano algoritmi e impongono le proprie regole in tutto il mondo, ben più pesantemente di qualsiasi regolamentazione europea.

Vietato l’ingresso negli USA all’ex commissario europeo Thierry Breton per avere richiesto che  le piattaforme social rispettino standard di moderazione dei contenuti e protezione dei dati

La situazione ha raggiunto un paradosso lampante la scorsa settimana, quando il Dipartimento di Stato americano ha sanzionato cinque personalità europee impegnate a favore di regolamentazioni più rigorose nel settore tecnologico. Tra queste Thierry Breton, ex commissario europeo e figura chiave del Digital Services Act, a cui è stato vietato l’ingresso negli USA. La motivazione ufficiale? “Censura dannosa per gli interessi americani”. Tradotto: chi protegge cittadini e utenti europei da pratiche predatorie americane diventa un nemico da punire.

Non si tratta di persone marginali. Breton ha guidato una legge che obbliga le piattaforme social a rispettare standard di moderazione dei contenuti e protezione dei dati. Eppure, secondo Washington, difendere i diritti digitali sarebbe “censura”. Con lui, nella lista nera americana, anche attivisti e ong come HateAid e il Center for Countering Digital Hate, impegnati a limitare contenuti tossici online.

La reazione europea è stata ferma e sarcastica. Breton ha commentato: “La caccia alle streghe di McCarthy è tornata? Il 90% del Parlamento europeo e tutti i 27 Stati membri hanno votato all’unanimità il Digital Services Act. Ai nostri amici americani: la censura non è dove pensate che sia.”

Il paradosso è evidente: mentre Vance teme per la libertà di parola in Europa, sono gli Stati Uniti a esercitare pressioni coercitive, imponendo la loro visione del mondo digitale. L’Europa, al contrario, cerca di proteggere cittadini e utenti e di stabilire regole chiare in un ecosistema tecnologico globale dominato da interessi privati americani.

In sintesi: se qualcuno dovrebbe preoccuparsi per la libertà di parola, non è l’Europa, ma chi subisce l’egemonia americana. E forse, prima di pontificare sulla “decadenza europea”, varrebbe la pena guardare in casa propria.