Negli ultimi giorni, il tono della diplomazia tra Washington e Pechino si è ulteriormente irrigidito. Il China Daily, portavoce del Partito Comunista Cinese in lingua inglese, ha lanciato un’accusa chiara agli Stati Uniti:
“Gli Usa devono smettere di lagnarsi, di essere vittime, mentre invece sono coloro che hanno colto un passaggio gratuito sul treno della globalizzazione – ha scritto il China Daily, una delle testate in lingua inglese del Partito comunista cinese – “Gli Stati Uniti non vengono truffati da nessuno. Il problema è che vivono al di sopra delle proprie possibilità da decenni. Consumano più di quanto producono. Hanno esternalizzato la produzione industriale e preso in prestito denaro per mantenere uno standard di vita superiore a quello che i loro livelli di produttività avrebbero giustificato. Invece di essere «ingannati», gli Usa hanno usufruito di un passaggio gratuito sul treno della globalizzazione” .
Una provocazione? Forse. Ma se mettiamo da parte per un attimo la retorica politica e guardiamo ai numeri, scopriamo che la Cina non ha tutti i torti.
Gli Stati Uniti e la globalizzazione: chi ci ha davvero guadagnato?
L’economia americana ha cavalcato l’onda della globalizzazione sin dagli anni ’90, quando l’apertura dei mercati, la delocalizzazione della produzione e l’avvento delle catene di approvvigionamento globali hanno permesso agli Stati Uniti di abbattere i costi di produzione e aumentare i profitti aziendali.
Secondo uno studio pubblicato dal Peterson Institute for International Economics, la globalizzazione ha portato ai consumatori americani un beneficio netto di circa 1.000 miliardi di dollari all’anno, pari a circa 7.000 dollari per famiglia. Il motivo? Prezzi più bassi sui beni di consumo, a partire dall’abbigliamento fino all’elettronica di massa. In cambio, però, gli Stati Uniti hanno trasferito gran parte della loro produzione industriale all’estero.
L’esternalizzazione della manifattura
Uno degli argomenti principali sollevati dal China Daily riguarda l’esternalizzazione della produzione industriale. E in effetti, i dati mostrano un crollo costante del settore manifatturiero americano rispetto al PIL nazionale: nel 1980 rappresentava circa il 21% del PIL, nel 2024 è sceso sotto il 11%. Non perché sia stato “rubato”, ma perché è stato deliberatamente delocalizzato da aziende alla ricerca di manodopera meno costosa. La Cina è stata solo una delle tante destinazioni, insieme a Messico, Vietnam, Malesia e India.
Il colosso americano Apple è un simbolo perfetto di questo processo: tutti conoscono l’iPhone, ma pochi sanno che la quasi totalità dei suoi componenti viene prodotta in Asia e poi assemblata in Cina da aziende come Foxconn. La progettazione resta in California, i profitti vengono contabilizzati negli USA, ma il lavoro è stato trasferito altrove.
Un debito fuori controllo
L’altra accusa del China Daily è che gli americani “vivono al di sopra dei propri mezzi”. Anche qui, i dati confermano: il debito pubblico degli Stati Uniti ha superato i 34.000 miliardi di dollari, pari a circa il 124% del PIL nazionale. È una cifra insostenibile se considerata sul lungo periodo, e riflette uno squilibrio strutturale tra ciò che gli americani consumano e ciò che effettivamente producono.
Nel 2023, gli Stati Uniti hanno importato beni per un valore di 3.200 miliardi di dollari e ne hanno esportati per circa 2.100 miliardi, con un deficit commerciale superiore ai 1.100 miliardi. In gran parte, si tratta di beni prodotti in Asia: ciò significa che gli Stati Uniti continuano a consumare beni prodotti altrove, a debito.
Una scelta economica, non una truffa
La narrazione secondo cui la Cina avrebbe “ingannato” gli Stati Uniti è comoda ma infondata. Gli USA hanno liberamente scelto di aprire i mercati, di firmare accordi commerciali come il NAFTA e l’ingresso della Cina nel WTO nel 2001. Nessuno ha costretto gli americani a spostare la produzione o a importare più di quanto esportano.
Come ha scritto Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, “la globalizzazione ha portato benefici enormi, ma ha anche creato perdenti interni”. La vera colpa è delle politiche interne americane, che non hanno saputo redistribuire i vantaggi e non hanno investito abbastanza nella riqualificazione della forza lavoro colpita dalla deindustrializzazione.
Gli USA hanno pagato un prezzo sociale, ma ne hanno guadagnato economicamente
È innegabile che alcune comunità americane, soprattutto nel Midwest, abbiano sofferto a causa della chiusura di fabbriche e delocalizzazioni. Ma questa sofferenza non è il frutto di un inganno straniero: è il risultato di scelte strategiche aziendali e governative. Nel frattempo, Wall Street ha continuato a prosperare, e le aziende americane hanno visto crescere i profitti in modo esponenziale. I miliardari USA hanno aumentato la loro ricchezza del 62% dal 2020 al 2024, secondo il rapporto di Americans for Tax Fairness.
Smettiamola con il vittimismo
In definitiva, le parole del China Daily colpiscono duro, ma non sono prive di fondamento. Gli Stati Uniti non sono vittime della globalizzazione, ma co-architetti e grandi beneficiari. Hanno scelto di esternalizzare, hanno scelto di consumare più di quanto producono, e hanno scelto di non affrontare i costi sociali interni del cambiamento economico.
Anziché lamentarsi, come suggerisce la testata cinese, forse sarebbe il momento per Washington di ripensare il proprio modello economico. Un modello basato meno sul debito, più sulla produzione interna, sulla formazione, sulla sostenibilità. Solo così gli Stati Uniti potranno recuperare davvero competitività – e smettere di dare la colpa agli altri per scelte fatte da loro stessi.