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L’ossessione della destra americana per la cultura woke: una battaglia culturale e politica

L'allora deputata statunitense Marcia Fudge mostra una maglietta che recita lo slogan "Stay Woke: Vote" (lett. "rimanete svegli: votate") (2018)

In copertina: L’allora deputata statunitense Marcia Fudge mostra una maglietta che recita lo slogan “Stay Woke: Vote” (lett. “rimanete svegli: votate”) (2018)

Negli ultimi anni, la destra americana ha fatto della lotta alla cosiddetta “cultura woke” uno dei suoi cavalli di battaglia, trasformando un termine nato in contesti di giustizia sociale in un’arma retorica per galvanizzare il proprio elettorato. Ma cosa significa esattamente “woke”? E perché è diventato un punto focale del discorso politico conservatore negli Stati Uniti? Questo articolo esplora l’evoluzione del termine, il suo utilizzo da parte della destra americana e le implicazioni di questa ossessione, basandosi su fonti recenti e analisi critiche.


Le origini del termine “woke”

Il termine “woke” deriva dall’inglese afroamericano vernacolare e significa letteralmente “sveglio”. È stato usato per la prima volta negli anni ’30 e ’40 per indicare una consapevolezza delle ingiustizie sociali, in particolare legate al razzismo e alla discriminazione contro le comunità afroamericane. Una delle prime registrazioni del concetto di “wokeness” risale al 1923, con lo slogan “Wake up Ethiopia!” del filosofo e attivista giamaicano Marcus Garvey. Negli anni 2000, il termine è stato rilanciato dal movimento Black Lives Matter, in particolare dopo le proteste di Ferguson nel 2014, per denunciare la violenza della polizia contro i neri e promuovere un’attenzione attiva alle disuguaglianze sociali.

Inizialmente, essere “woke” significava essere consapevoli delle ingiustizie sistemiche — non solo razziali, ma anche di genere, orientamento sessuale e altre forme di marginalizzazione. Tuttavia, nel tempo, il significato del termine è mutato, assumendo una connotazione negativa soprattutto nei discorsi dei critici conservatori, che lo impiegano per denigrare una vasta gamma di posizioni progressiste.


Appropriazione del termine da parte della destra americana

Negli Stati Uniti, il termine “woke” è stato gradualmente trasformato dalla destra in un’etichetta dispregiativa, utilizzata per criticare un’ideologia progressista considerata dogmatica e intollerante. La cultura woke viene dipinta come una minaccia alla libertà di espressione, al “senso comune” e ai valori tradizionali americani. Il linguista John McWhorter ha paragonato l’evoluzione di “woke” a quello di “politicamente corretto”, anch’esso inizialmente neutro e poi diventato insulto nel discorso conservatore.

Esempi emblematici recenti:

Il movimento anti-woke ha trovato terreno fertile anche in Florida sotto la leadership di Ron DeSantis con il cosiddetto Stop WOKE Act:


Perché “woke” è diventato ossessione della destra

La strategia elettorale della destra ha trasformato il termine woke in un vero e proprio “nemico unificatore”, capace di polarizzare l’elettorato e racchiudere sotto un’unica etichetta femminismo, antirazzismo e diritti LGBTQ+ in chiave negativa. Un sondaggio YouGov del 2024 mostra che il 57% degli americani lo considera determinante nelle elezioni presidenziali.

Allo stesso tempo emergono divisioni interne nel fronte progressista: figure come Gavin Newsom hanno criticato la cancel culture o il linguaggio inclusivo esasperato, fino alla questione degli atleti transgender, offrendo così alla destra nuove occasioni di attacco.

La retorica anti-woke si alimenta della paura del cambiamento culturale, opponendo i valori tradizionali di famiglia, religione e merito a un presunto tribalismo identitario che minaccia il “sogno americano”.

Infine, un ruolo decisivo è svolto dall’amplificazione mediatica: piattaforme e social network diffondono messaggi polarizzanti, con account come End Wokeness su X che moltiplicano meme e contenuti virali premiati dagli algoritmi.


Critiche e contraddizioni

La retorica anti-woke non è immune da contraddizioni:


Impatto globale e riflessi in Italia

Il termine woke nasce in un contesto statunitense ben preciso, inizialmente all’interno della comunità afroamericana per indicare la vigilanza contro le ingiustizie razziali, e solo in seguito esteso a una più ampia attenzione verso discriminazioni di genere, orientamento sessuale e diritti civili. Negli Stati Uniti, tuttavia, la destra politica lo ha progressivamente trasformato in un’etichetta spregiativa, un contenitore polemico per criticare politiche progressiste legate alle azioni affermative, all’inclusività linguistica, all’educazione sessuale, ai diritti LGBTQ+ o all’ambientalismo radicale.

Quando il termine approda in Europa, lo fa già carico di questa connotazione negativa, ma privo del contesto storico e sociale che ne aveva alimentato il significato originario. In molti paesi europei viene utilizzato soprattutto da forze populiste e conservatrici, che lo impiegano come strumento di mobilitazione culturale. Il woke diventa così un marchio generico e stigmatizzante, utile più come insulto che come concetto critico, e funziona come un simbolo esotico di politiche “straniere”, percepite come imposte dall’esterno.

In Italia, il termine è stato adottato in particolare dalla destra guidata da Giorgia Meloni. Nella sua retorica, woke viene presentato come sinonimo di ideologia radicale e ipocrita, attribuita alle élite globali che vorrebbero minare il “buon senso” popolare. Questo discorso si intreccia con temi centrali dell’agenda politica conservatrice italiana, come la difesa della famiglia tradizionale, la contrapposizione alle cosiddette “teorie gender”, la tutela della nazione e dell’identità culturale. Non mancano riferimenti al patrimonio storico e artistico, con la denuncia del woke come minaccia al ricordo collettivo, per esempio nelle polemiche legate al linguaggio inclusivo o all’educazione scolastica. In questo modo il termine non diventa mai una critica circostanziata a singole politiche, ma piuttosto un richiamo evocativo a un nemico culturale generico ed esterno.

La differenza con il contesto statunitense è sostanziale. Negli USA la parola woke affonda le radici in lotte storiche reali, dai diritti civili al movimento Black Lives Matter. In Italia e più in generale in Europa manca questo retroterra. L’uso della parola risulta quindi superficiale, fortemente ideologico e prevalentemente mediatico, più funzionale alla guerra culturale e al marketing politico che a un confronto reale con i cambiamenti sociali in corso.

Gli effetti sul dibattito italiano sono evidenti. Da un lato si produce polarizzazione, poiché etichettare come woke qualsiasi discorso progressista riduce lo spazio per argomentazioni sfumate. Dall’altro si assiste a una riduzione concettuale, che svuota di contenuto questioni complesse come l’uguaglianza di genere, l’inclusività o i diritti civili, riducendole a semplici imposizioni ideologiche. Al tempo stesso, l’Italia si inserisce in una più ampia rete narrativa internazionale, che accomuna la destra italiana a leader come Trump e Orbán attraverso la condivisione di parole d’ordine e nemici simbolici.

In sintesi, nel nostro paese il termine woke è stato svuotato del significato originario e ricaricato di connotati moralistici e caricaturali. Non rappresenta un concetto critico autoctono, ma un import retorico proveniente dagli Stati Uniti, adattato alle esigenze della politica culturale italiana.

Tirando le somme

L’ossessione della destra americana per la cultura woke è un fenomeno sfaccettato che unisce strategia politica, reazione culturale e amplificazione mediatica. Il termine — una volta portatore di consapevolezza sociale — è stato svuotato e convertito in arma per delegittimare il progressismo. La destra ha abilmente sfruttato le tensioni interne alla sinistra e i timori popolari, consolidando la propria influenza.

Tuttavia, questa battaglia culturale rischia di alimentare ulteriore polarizzazione, riducendo il dibattito politico a slogan e semplificazioni. Un dialogo più costruttivo, capace di riconoscere le istanze di giustizia sociale senza cadere in estremismi o censura, rappresenta la sfida e l’urgenza contemporanea.

Per approfondire

Il follemente corretto: L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite – Luca Ricolfi
Descrive un fenomeno prepotentemente esploso negli ultimi dieci anni. Il politicamente corretto era nato, negli anni ’70, con lo scopo di promuovere coesione sociale e rispetto dei soggetti più deboli. Ma la sua metamorfosi in follemente corretto, resa possibile dalla straordinaria espansione delle reti di comunicazione e dei social, ha finito per ottenere l’effetto contrario: il nuovo credo non solo restringe drammaticamente la nostra libertà di espressione, ma genera profonde fratture sociali che favoriscono l’ascesa di una nuova élite, autoreferenziale e lontanissima dal vivo sentire dei ceti popolari.

We Have Never Been Woke – Musa al-Gharbi
L’autore argomenta che la cultura woke è spesso identitaria e simbolica, alimentata da élite accademiche e giornalistiche più interessate a capitale culturale che al cambiamento sociale reale

Articolo  The Rise and (Likely) Fall of Wokeness.
Mostra come il woke sia espressione di un’élite che ha abbandonato le radici economiche della giustizia sociale, sostituendole con ideologie identitarie e istituzionali.

Bad News: How Woke Media Is Undermining Democracy – Batya Ungar-Sargon (2021)
Secondo l’autrice, i media progressisti hanno progressivamente abbracciato una visione centrata sull’identità, trascurando le questioni di classe e marginalizzando le voci più ampie della società

Cynical Theories: How Activist Scholarship Made Everything About Race, Gender, and Identity—and Why This Harms Everybody – Helen Pluckrose e James Lindsay (2020)
Critica l’impatto di un’attivismo accademico radicale (postmodernismo applicato) che, secondo gli autori, ha trasformato città della giustizia sociale in un’ideologia inflessibile

The Problem with Everything: My Journey Through the New Culture Wars – Meghan Daum (2019)
Daum riflette sulle divisioni generate dal “woke-ismo”, criticando atteggiamenti “polizieschi” della correttezza politica e il potere della cultura del silenzio.

Kill All Normies: Online Culture Wars from 4chan and Tumblr to Trump and the Alt-Right – Angela Nagle (2017)
Analisi illuminante su come l’estrema sinistra digitale abbia, secondo Nagle, contribuito alla nascita dell’alt-right, influenzando e radicalizzando il discorso politico

How Woke Won: The Elitist Movement that Threatens Democracy, Tolerance and Reason – Joanna Williams
L’autrice denuncia una nuova élite culturale progressista che, attraverso pratiche come il “woke capitalism”, avrebbe incentivato la divisione identitaria a scapito della solidarietà e della libertà.

Culture Wars: The Struggle to Define America – James Davison Hunter (1991)
Classico della sociologia politica, descrive lo scontro tra visione morale conservatrice (orthodoxy) e progressista (progressivism) nella definizione dell’identità americana, precursore della retorica di destra contemporanea.

Saggio su Woke Capital: A Dialectical History (American Affairs Journal)
Articolo che esplora la tensione tra woke capitalism (corporate progressive) e Trumpismo (altra identità radicata). Il woke è visto come distrazione dalle vere questioni economiche.American Affairs Journal

The Puzzle of Woke Capital (American Affairs Journal)
Approfondisce le dinamiche del woke capitalism, citando lavori come “Rise of Victimhood Culture” di Campbell e Manning, e analizza le reti di potere che favoriscono una cultura progressista performativa