di Giovanni Firera
C’è un capitolo della storia italiana che, per oltre un secolo, è stato narrato in modo unilaterale, quasi rimosso dal racconto ufficiale del Risorgimento: la rivolta del Sud dopo l’Unità d’Italia. Quella che per decenni è stata etichettata come “brigantaggio” – e che nei manuali scolastici appariva come una parentesi di banditismo rurale – oggi si rivela, nelle pagine del nuovo saggio di Gianni Oliva, una guerra civile nazionale combattuta nel cuore del Mezzogiorno tra il 1860 e il 1870.
Oliva, storico torinese e autore di numerosi studi sulla storia militare e sull’Italia unita, affronta nel volume *Rivolte e repressioni del Mezzogiorno dopo l’Unità d’Italia* (Mondadori, 2025) un nodo irrisolto della memoria italiana. Supera la lettura tradizionale che riduceva il fenomeno a mera delinquenza e restituisce dignità storica e politica a un movimento complesso, radicato nelle comunità contadine, nel malcontento popolare, nella delusione per le promesse tradite del nuovo Regno.
Dal mito dell’Unità alla realtà del conflitto
L’Italia del 1861, unita sotto il segno dei Savoia, nacque da un’epopea risorgimentale raccontata come la conquista della libertà e del progresso. Ma nel Sud, dove l’annessione avvenne per mano di un esercito straniero percepito come “piemontese”, la proclamazione dell’Unità fu vissuta da molti come un’invasione. Non solo i cosiddetti briganti, ma anche ex ufficiali borbonici, sacerdoti, contadini e persino donne presero parte a una resistenza armata contro il nuovo Stato.
Oliva cita cifre impressionanti: oltre 120.000 uomini del Regio Esercito furono impiegati nella repressione del Mezzogiorno. Interi villaggi furono incendiati, i sospetti fucilati sul posto, le donne e i bambini deportati. L’obiettivo era “normalizzare” un territorio che non riconosceva l’autorità sabauda. Nei documenti del tempo, come ricorda l’autore, le truppe di occupazione parlavano di “pulizia del brigantaggio” con la stessa logica con cui si sarebbero poi condotte le guerre coloniali.
Una guerra tra italiani
“Fu guerra civile” – scrive Oliva – “perché fu combattuta tra italiani, tra chi difendeva il nuovo Stato e chi si ribellava al tradimento di un’identità e di una speranza”. L’espressione, destinata a far discutere, segna un cambio di paradigma. Non si trattò solo di banditismo, ma di un conflitto politico e sociale: una parte del popolo meridionale, delusa dalle riforme mancate, reagì con la forza a un processo di unificazione calato dall’alto.
Il Sud, impoverito da nuove tasse, dall’abolizione dei beni comuni e dalla leva obbligatoria, vide crescere il rancore verso un potere percepito come estraneo. Nacque così una resistenza che mescolava nostalgia borbonica, fede religiosa e istinto di sopravvivenza. Le bande armate di Crocco, Ninco Nanco, Caruso, ma anche le comunità contadine, furono travolte da una repressione spietata, che la storiografia liberale preferì per decenni occultare.
La costruzione del mito del “brigante”
Nella narrazione ufficiale, il brigante fu il nemico della civiltà, l’ostacolo al progresso. Ma quella rappresentazione, osserva Oliva, serviva a legittimare il potere del nuovo Stato e a spegnere ogni forma di dissenso. Il brigante fu trasformato in simbolo dell’arretratezza, della barbarie meridionale, alimentando lo stereotipo del Sud come “questione da risolvere”.
In realtà, il brigantaggio fu una risposta sociale e politica: dietro ogni banda c’era un tessuto di solidarietà, un’intera popolazione che si opponeva a tasse ingiuste, confische e coscrizioni forzate. Persino alcuni ufficiali piemontesi, come scrisse all’epoca il deputato Ricciardi, ammisero che il fenomeno aveva “carattere di insurrezione nazionale”.
Memoria e rimozione
Per oltre un secolo, il Nord ha raccontato la storia dell’Unità come una marcia trionfale. Il Mezzogiorno, invece, ne ha vissuto le ferite. Solo a partire dagli anni ’90, con gli studi di Pino Aprile, Franco Molfese e altri storici meridionalisti, si è cominciato a parlare di “guerra dimenticata”. Oliva porta ora questo dibattito su un piano più ampio: non per riscrivere la storia, ma per ricomporre la memoria nazionale, riconoscendo che l’Unità fu anche dolore, sangue e frattura.
“Non c’è tempo per compiangere il Mezzogiorno – scrive l’autore – ma è necessario comprendere come la nascita dello Stato italiano sia avvenuta a prezzo di una guerra fratricida.” Un passo decisivo per sanare, finalmente, la distanza tra le due Italie.
Un libro che apre un nuovo dibattito
Il merito di Gianni Oliva è duplice: da un lato restituisce voce a una parte del Paese rimasta ai margini del racconto nazionale; dall’altro inserisce quella vicenda nella più ampia riflessione sulle guerre civili del XIX secolo, da quelle spagnole alle francesi. Il suo approccio, rigoroso ma narrativo, rende il volume accessibile a un pubblico vasto e attento. Le illustrazioni d’epoca, le testimonianze dei soldati e dei civili, le lettere censurate dagli archivi militari contribuiscono a dare corpo a una tragedia collettiva che appartiene a tutti gli italiani.
Dalla storia al presente: una frattura ancora aperta
Il libro di Oliva, oltre al suo valore storiografico, invita a riflettere sul presente. Le diseguaglianze tra Nord e Sud, la questione fiscale, l’emigrazione giovanile, sono ferite che hanno radici lontane. Riconoscere la “guerra civile” del 1861 non significa dividere l’Italia, ma comprenderne meglio le fondamenta. Ogni nazione, per diventare adulta, deve fare i conti con le proprie ombre. E quella che il nuovo Stato chiamò “repressione del brigantaggio” fu, di fatto, la prima guerra civile dell’Italia unita.
📘 Gianni Oliva, “La prima guerra civile. Rivolte e repressione nel Mezzogiorno dopo l’unità d’Italia“, Mondadori, 2025, 288 pp., €21.