Gravita Zero: comunicazione scientifica e istituzionale

James Webb scopre il suo primo esopianeta: perché la notizia è vera, ma non nel modo che pensate

 

Che il James Webb Space Telescope abbia “scoperto il suo primo esopianeta” è una notizia che potrebbe suonare datata o addirittura banale a chi segue l’astronomia: viviamo in un’epoca in cui il numero di pianeti extrasolari confermati supera i 5.000. La vera domanda allora è: cosa c’è di davvero nuovo in questa notizia? La risposta è semplice, anche se i titoli a effetto spesso la nascondono sotto il tappeto: il James Webb non è un cacciatore di esopianeti come Kepler o TESS. È uno strumento che cambia le regole del gioco.

Non è la scoperta che conta, ma lo sguardo

Il pianeta di cui si parla si chiama LHS 475 b. Si tratta di un corpo roccioso, grande quasi quanto la Terra, che orbita attorno a una stella nana rossa a circa 41 anni luce da noi. Non è stato “scoperto” dal JWST nel senso tradizionale: era già noto, individuato dal satellite TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite). Ma il James Webb ha fatto qualcosa di più raffinato e rivoluzionario: ne ha osservato il transito con una sensibilità tale da poter tentare di analizzarne l’atmosfera.

Ed è qui che entra in gioco la vera notizia. Con i suoi strumenti all’infrarosso, il JWST è in grado di rilevare variazioni nella luce stellare durante il passaggio del pianeta davanti alla sua stella, e da queste dedurre — almeno in teoria — la composizione atmosferica. Si cerca la firma di gas come metano, anidride carbonica, vapore acqueo. Elementi che, oltre a dirci qualcosa sulla chimica di quel mondo, potrebbero un giorno farci intravedere le condizioni per la vita.

Nel caso di LHS 475 b, i dati preliminari indicano che potrebbe trattarsi di un pianeta roccioso privo di atmosfera, oppure dotato di un’atmosfera molto densa e composta da anidride carbonica pura — simile, forse, a quella di Venere. In entrambi i casi, il fatto che possiamo fare queste ipotesi con questo livello di precisione è già straordinario.

Perché il JWST è diverso da tutto ciò che è venuto prima

Il James Webb è stato progettato non tanto per scoprire se esistono esopianeti (questo ormai lo diamo per assodato), ma per capire com’è fatto un esopianeta. Si tratta della fase due dell’astronomia extrasolare: non più un censimento, ma un’indagine qualitativa. E soprattutto: non solo sui giganti gassosi, ma anche su pianeti rocciosi e potenzialmente abitabili.

È proprio qui che Webb mostra la sua forza. Dove Hubble arrivava a malapena a intuire atmosfere di giganti come Giove o Saturno, Webb può provare a studiare mondi più piccoli, vicini alla dimensione della Terra. Questo apre scenari impensabili solo dieci anni fa.

Il rischio del sensazionalismo

Naturalmente, titoli come “il primo esopianeta scoperto dal James Webb” rischiano di banalizzare il valore dell’impresa. Non solo danno l’impressione che la scoperta sia avvenuta da zero — cosa non vera — ma soprattutto non comunicano al pubblico il vero salto di qualità: la possibilità di analizzare mondi alieni, anche molto piccoli, con strumenti spettroscopici di altissima precisione.

È una differenza sottile, ma sostanziale. Il punto non è più “esistono altri pianeti?”, ma “come sono fatti? Sono abitabili? Sono vivi?”. In questo senso, il James Webb non è un telescopio qualsiasi, ma un laboratorio orbitante che getta le basi dell’esobiologia.

E ora?

Il team della NASA e del Centro per l’Astrofisica Harvard-Smithsonian continuerà ad osservare LHS 475 b nei prossimi mesi, per cercare ulteriori conferme sulla presenza (o assenza) di atmosfera. Altri mondi sono in lista d’attesa. E anche se le risposte non arriveranno tutte subito, il messaggio è chiaro: la scienza dell’esopianetologia ha appena fatto un balzo in avanti. E non tornerà indietro.