È arrivato l’iPhone 17. Nessuno si è emozionato, nessuno si è davvero stupito.
Ormai il copione è scritto: chip più veloce, fotocamera migliorata, batteria che dura di più. E, come sempre, un nuovo iOS che sembra più interessato a rendere i vecchi modelli obsoleti che a portare una ventata di reale innovazione. Nessun colpo di scena, nessun lampo visionario: solo un silenzio di fondo, quasi assordante.
Apple non sorprende più: è diventata un monumento a se stessa. Vive del genio di Jobs, ma raramente prova a riaccenderne lo spirito. Un tempo guidava il cambiamento, oggi si limita a gestirlo, lasciando che siano altri ad assumersi il rischio dell’imprevedibile.
Basta guardare a Siri: nel 2011 era una promessa rivoluzionaria, l’idea che la voce potesse diventare un’interfaccia quotidiana. Nel 2025, la stessa Siri è ridotta a poco più di un telecomando vocale: utile per un timer, un messaggio veloce, una chiamata. Ma incapace di comprendere il contesto, di ricordare, di evolvere. Nel frattempo, OpenAI in soli tre anni ha ridefinito il rapporto tra esseri umani e linguaggio, creando strumenti che hanno trasformato il nostro modo di scrivere, cercare, pensare. E oggi Apple rincorre, integrando ChatGPT nei propri dispositivi: non sembra una scelta strategica, ma una resa.
Dopo Jobs, Apple ha smesso di immaginare ciò che non esisteva. Ha lasciato andare Jonathan Ive, trasformandosi sotto la guida di Tim Cook in una macchina perfetta e redditizia, dal valore superiore ai 3.000 miliardi di dollari. Ma una macchina senza scintilla creativa, priva di quella follia visionaria che osava riscrivere le regole.
Intanto, altri hanno osato: Spotify ha reinventato la musica, Netflix ha cambiato l’intrattenimento, WhatsApp ha vinto la battaglia della messaggistica, OpenAI ha aperto nuove frontiere dell’intelligenza artificiale. E Apple? Si accontenta di presentare ogni anno Memoji animate, mentre iMessage rimane un giardino chiuso, irrilevante fuori dagli Stati Uniti.
Come se non bastasse, neppure lo storico slogan “Think Different” appartiene più alla Mela. La Corte di giustizia europea ha stabilito che Apple non può più rivendicarne i diritti: troppo tempo è passato dall’ultima volta che l’azienda lo ha davvero usato. Quel motto, nato nel 1997 per accompagnare i PowerBook e gli iMac, era molto più di una campagna pubblicitaria: era una dichiarazione di intenti. Lo spot con le immagini di Martin Luther King, Einstein, Rosa Parks e altri innovatori ribadiva l’orgoglio di essere diversi, anticonformisti, capaci di cambiare il mondo. Oggi, invece, Apple si vede sottrarre legalmente quella frase proprio perché non la incarna più. Non pensa diverso, non agisce diverso: si limita a perfezionare ciò che già esiste.
E qui sta il punto più amaro. Non si tratta solo di perdere una battaglia legale contro Swatch e il suo gioco di parole “Tick Different”. Si tratta del segnale simbolico che Apple non ha più diritto — né legale, né culturale — di proclamarsi portabandiera della diversità di pensiero. Il suo slogan si è svuotato prima ancora che i tribunali glielo strappassero via.
L’azienda che un tempo rischiava, che faceva dell’imprevisto la propria arma, ha smesso di cercare il futuro. E un’azienda che non cerca più, per quanto solida, amata e dominante, finisce inevitabilmente per doverlo affittare da chi ancora osa inventarlo.